Una buona idea!

Poiché sono un sostenitore del SI’ e ritengo che con il referendum si influenzerà in maniera decisiva il futuro del paese, sono convinto che sia nell’interesse della mia parte agire perché la campagna referendaria viva il più possibile di discussioni di merito e si arrivi al voto con una diffusa consapevolezza delle poste in gioco. Come tanti analisti hanno fatto notare, Renzi aveva inizialmente cercato di trasformare il referendum anche in un momento di legittimazione della sua leadership. Lo aveva fatto ritenendo – un po’ narcisisticamente e un po’ ingenuamente – che la propria immagine fosse un capitale importante da investire sulle riforme. Purtroppo le dinamiche di fondo della nostra democrazia in questo momento storico hanno rivelato questo tentativo come un errore tattico. L’Italia oramai da diversi anni non fa altro che produrre “novità” politiche, innamorarsene follemente e poi consumarle e gettarle via in lassi di tempo brevissimi: non è improbabile che Renzi finisca nel novero di questo genere di novità e che un equilibrio stabile per il sistema politico sia ancora di là da venire. D’altronde, un dibattito pubblico nutrito a forza di soli slogan, twit, urla isteriche e deduzioni infondate e sommarie non aiuta certo a venire fuori da questo circolo vizioso. In questo contesto, penso che la campagna referendaria potrebbe seriamente diventare l’occasione per sperimentare una nuova qualità del confronto politico e far risorgere piani di aggregazione basati su concezioni politiche, che prendano il posto delle attuali tifoserie da stadio. Vale la pena lavorare per questo obiettivo.

Dunque il merito delle riforme. Ma è fondamentale ricordare che il merito delle riforme non consiste solo nei dettagli dei dispositivi approvati ma anche negli effetti di secondo livello che le riforme in sé producono.

Checché ne pensi un certo popolino, l’Italia – come ogni altro paese del mondo – vive immersa in una intricatissima rete di relazioni e scambi con altri paesi oltre che con realtà e fenomeni sovranazionali e transnazionali. Tutto quello che in Italia si decide (o non si decide) influenza lo stato di queste interazioni in modi anche assai complessi e perciò difficili da prevedere. Questo pone, se non delle limitazioni, certo dei vincoli alla sovranità nazionale. I paesi democratici come l’Italia sono liberi di decidere politicamente cosa è meglio per sé; altrettanto liberi sono i partner internazionali e gli altri soggetti che interagiscono con noi di trarre dalle nostre decisioni le deduzioni che più ritengono opportune e di rapportarsi a noi nei modi che più ritengono convenienti. In un mondo fittamente interconnesso l’idea ottocentesca della democrazia come autodeterminazione assoluta del popolo è non solo irrealistica ma anche assai pericolosa. E ciò che in prima approssimazione potremmo chiamare “l’immagine” del paese – il patrimonio immateriale della propria reputazione e credibilità – produce effetti sempre più materiali e diretti. È una lezione che avremmo dovuto imparare bene già nel 2011, quando il degrado delle istituzioni italiane e della dialettica politica raggiunse un tale punto da spingere i mercati internazionali a chiedere un prezzo esorbitante per il rifinanziamento del nostro debito pubblico così da rischiare di renderlo quasi matematicamente insostenibile. Il risultato di quella crisi fu la necessità per le forze politiche di cedere il proprio mandato democratico a un governo di tecnici (privi di rappresentatività politica) che in fretta e furia – e dunque anche piuttosto male – riuscì a realizzare quei tre o quattro provvedimenti indispensabili a riportare la dinamica della spesa pubblica entro parametri bastanti a tranquillizzare i nostri creditori e a riparare gli spaventosi danni di immagine che vent’anni di berlusconismo e antiberlusconismo sfrenato avevano causato.

Data la nostra storia recente, fa benissimo Renzi ad insistere sugli effetti comunicativi delle riforme. L’Italia è un paese che non cresce economicamente da vent’anni e la cui produttività sembra declinare senza speranza; è un paese che ai test PISA continua a fare meno della media OCSE e a stazionare al livello di paesi come Turchia e Tunisia; è un paese che esprime da decenni una classe dirigente considerata tra le più corrotte, parassitarie, improduttive e predatorie del mondo occidentale ed è percepito dagli osservatori internazionali come sostanzialmente incapace di autoriformarsi e di modernizzarsi. Ebbene, quando il parlamento di questo paese ha votato per riformare se stesso, accettando di ridimensionare drasticamente una delle camere, di semplificare il processo legislativo e di ridurre i propri costi di funzionamento, il guadagno di immagine internazionale che se ne è ricavato è stato considerevole e Renzi ha ragione quando enfatizza questo aspetto della faccenda.

Il voto al referendum va inserito in questa cornice. Se vinceranno i SI’, il segnale di sostegno al percorso di autoriforma del sistema sarà percepito nel mondo come la conferma di una diversa credibilità del paese, come la dimostrazione che il declino non è inevitabile e che ci sono in Italia sufficienti consapevolezza della crisi in cui versa e sufficienti risorse per reagire. Se vinceranno i NO, il metamessaggio che arriverà a chi ci osserva dal di fuori dei nostri confini, sarà l’immagine di un paese diviso, inconsapevole del proprio declino, incapace di compiere sforzi coerenti e di mostrarsi coeso davanti alla necessità di cambiare per non perire.

Chi crede che il referendum sia una partitina interna per “mandare a casa Renzi” farebbe bene a riflettere su queste dinamiche. Chi si esercita costantemente a trovare difetti nei dettagli della riforma e ad insistere che la riforma potrebbe e dovrebbe essere migliore di come è (e di quale riforma a questo mondo non si potrebbe d’altronde dire lo stesso?) farebbe bene a comparare con attenzione il peso e l’importanza dei dettagli del nuovo funzionamento istituzionale proposto rispetto al peso e l’importanza degli effetti politici indiretti e di sistema che la convalida o la bocciatura della riforma produrranno.

Da questo punto di vista, la parte della legge costituzionale che riguarda il Senato è senz’altro quella più importante, perché più densa di implicazioni simboliche e politiche.

Ripeto: l’immagine di un’assemblea di senatori – emblema della casta sprecona, improduttiva e corrotta – che vota per la propria autosoppressione, è stata un asset di credibilità acquisito al patrimonio. E va dato atto a Renzi di aver conseguito un risultato politico assolutamente fuori dal comune e per niente scontato. Con il referendum saremo chiamati innanzitutto a decidere che cosa vogliamo farne di questo asset, se investirlo e metterlo a frutto o gettarlo via nell’ennesimo singulto di irrazionalità autolesionista.

***

 

I punti chiavi della riforma sono ormai noti a tutti: si va a modificare contemporaneamente la composizione, i criteri di rappresentatività e le funzioni del Senato, con lo scopo esplicito di rendere più veloce a agevole il processo legislativo e ridurre i costi di funzionamento delle istituzioni parlamentari.

Attualmente: il Senato è composto di 315 membri eletti, di tutti gli ex Presidenti della Repubblica (senatori di diritto e a vita) e di un massimo di altri cinque Senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti in campo sociale o culturale.

Dopo la riforma: sarà composto da un totale di 100 membri, di cui 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 nominati dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti ma con un mandato di soli sette anni e non più a vita, oltre agli ex Presidenti della Repubblica, che restano senatori di diritto e a vita.

Attualmente: i senatori sono eletti con la stessa legge elettorale della Camera ma con il premio di maggioranza assegnato su base regionale e non nazionale e da elettori che abbiano compiuto 25 anni di età anziché i 18 previsti per la Camera. Queste piccole differenze nella platea e nel calcolo delle percentuale fanno sì che le due camere, pur riflettendo la stessa logica rappresentativa, risultano spesso composte da maggioranze di diversa consistenza o addirittura di diverso segno, con tutti i problemi di instabilità e trasformismo che ne derivano.

Dopo la riforma: i senatori saranno eletti da platee di secondo livello (consigli regionali, assemblee di sindaci), resteranno in carica per la durata del loro mandato originario (consigliere regionale, sindaco) e rappresenteranno sostanzialmente il sistema delle autonomie locali e non direttamente il popolo. Questo meccanismo dovrebbe garantire una maggiore omogeneità politica con la Camera, ma se anche tale omogeneità dovesse venir meno nel corso delle surroghe dei componenti, gli effetti sulla legislazione saranno limitati a causa delle ridotte funzioni deliberative del nuovo Senato.

Attualmente: il Senato vota su tutte le proposte di legge, che vengono promulgate solo quando sono approvate nello stesso identico testo da entrambe le camere. Basta la modifica anche solo di una parola o di una virgola per obbligare l’altra camera a discutere di nuovo il testo e a riapprovarlo. Ciò ha avuto storicamente l’effetto di rallentare il processo deliberativo ma soprattutto di assegnare un potere improprio di controllo sui tempi e sull’agenda alle forze di maggioranza, al governo o anche alle forze minoritarie che intendono esercitare azioni di blocco e di ostruzione. Da cui l’ulteriore effetto dell’abuso dei voti di fiducia e della decretazione d’urgenza.

Dopo la riforma: il Senato delibererà solo su proposte di leggi attinenti a poche materie (affari regionali, normativa comunitaria, leggi costituzionali, leggi sull’ordinamento degli enti locali, ecc…), avrà limitate possibilità di iniziativa legislativa, valuterà le politiche pubbliche con limitati poteri di intervento e non voterà più la fiducia ai governi, rendendo del tutto secondario il peso effettivo della propria composizione politica. Di fatto sarà una camera di raccordo tra il potere legislativo ed esecutivo nazionali e le autorità territoriali.

La si può vedere come si vuole, ma i vantaggi della riforma in termini di efficienza, semplificazione e risparmio a me paiono evidenti. D’altronde sono ampiamente argomentati da tutti i costituzionalisti che stanno sostenendo il SI’, perciò non mi ci dilungherò oltre. (Per maggiori dettagli sulle differenze tra il testo costituzionale attuale e quello riformato consiglio questo link: https://stefanoceccanti.wordpress.com/2016/03/02/carlo-fusaro-guida-al-testo-della-riforma-costituzionale/).

Ci sono diversi commentatori – alcuni per sincera convinzione, altri, per la verità, per solo benaltrismo – che ritengono che, invece di modificare la composizione e le funzioni del Senato, maggiore senso avrebbe avuto abolirlo del tutto. Trovo quest’osservazione interessante e, più che un’opinione, vorrei esprimere in proposito alcune considerazioni e fornire alcuni riferimenti teorici.

Non è possibile fare qui un riassunto di tutto il dibattito teorico che si è sviluppato negli ultimi tre secoli sulla rappresentanza negli stati moderni, sui limiti e i problemi della democrazia indiretta, sull’efficienza dei sistemi elettorali nel preservare le scelte sociali, sulla possibilità di armonizzare preferenze individuali e/o interessi dei sottosistemi sociali in una decisione sociale coerente, eccetera. Basti ricordare che la teoria della politica è molto avanti nel dettagliare e formalizzare questo genere di questioni (il che, francamente, mi fa provare molto imbarazzo quando vedo che i problemi teorici estremamente complessi dell’organizzazione e del funzionamento della rappresentanza democratica e del parlamentarismo si riducono nel nostro dibattito pubblico a bolse discussioni su “sapere chi vince e chi perde”, “il rispetto del programma”, “un mandato o due mandati”, eccetera).

Il parlamento bicamerale con almeno una camera eletta a suffragio universale è uno degli istituti dei cosiddetti “stati di democrazia classica”, ossia di quegli stati moderni la cui ispirazione democratica deriva dal parlamentarismo inglese, da quello della Francia post-rivoluzionaria e dalle istituzioni degli Stati Uniti d’America. Al di là delle differenze tra i vari paesi, il parlamento bicamerale è stato la soluzione ad un problema preciso, intuito politicamente dalle classi dirigenti e solo molto più tardi formalizzato dalla teoria. Il problema consiste nell’interpretazione della rappresentatività delle istituzioni parlamentari come trasmissione di informazione tra sistema sociale e centri decisionali.

In una società complessa – caratterizzata cioè dalla presenza di molteplici sottosistemi con un elevato grado di autonomia (autorità locali, organizzazioni di categoria, gruppi etnici, classi sociali, confessioni religiose, solo per fare degli esempi semplici) – l’elaborazione di una politica nazionale come momento di sintesi di interessi diversi e spesso contrastanti e, ancor più, la possibilità di imporre un tale politica in modo omogeneo sul piano nazionale sono compiti intrinsecamente complicatissimi che tendono a spingere il processo democratico verso il caos.

Fuori dai casi in cui per dimensioni e omogeneità del demos è possibile l’esercizio di una qualche forma di democrazia diretta, la democrazia, questo fantomatico “potere del popolo”, deve tradursi nella composizione di una scelta sociale razionale e coerente nella quale si ritrovino rappresentati almeno gli interessi di una parte maggioritaria della società. Data l’articolazione della società per piani di aggregazione e in sottosistemi relativamente indipendenti e reciprocamente interagenti, la realizzazione effettiva di questa scelta sociale è un processo incerto e problematico, che ha tanto maggiori probabilità di successo quanto più efficiente è il meccanismo di trasmissione delle informazioni ( = espressioni e manifestazioni degli interessi) tra rappresentati e rappresentanti. In che cosa consista questa “efficienza” e quali siano le condizioni della sua implementazione sono questioni assai problematiche.

La teoria ci dice che maggiore è la complessità del sistema governato dalle istituzioni, maggiore è la quantità di informazioni e feedback di cui il centro decisionale ha bisogno non solo per raggiungere gli scopi che si è prefissato ma anche (si badi bene!) per tutelare la stabilità del sistema e impedire che possa accadere qualcosa di irreparabile. Ma ci dice anche che nei moderni paesi democratici, il grado di complessità funzionale dei sistemi sociali e la sua dinamica evolutiva sono tali che il sistema non può più realmente trasmettere le informazioni disponibili e le istituzioni rappresentative non possono più realmente  comprendere e processare queste informazioni.

La teoria è già molto avanti nello stabilire che la democrazia è un sistema intrinsecamente contraddittorio e denso di aporie logiche, che la ricerca di una democrazia perfetta è pura perdita di tempo e che un più serio obiettivo politico è quello di rimodulare frequentemente i meccanismi e le istituzioni e mantenerli sufficientemente elastici da adattarsi al mutare delle esigenze.

 

Un rimedio non risolutivo ma coerente con la natura del problema della circolazione dei feedback tra sottosistemi sociali e centri decisionali è avere istituzioni rappresentative che, in virtù di una significativa differenziazione qualitativa delle platee democratiche rappresentate e dei meccanismi di trasmissione della delega, abbiano la possibilità al proprio interno di consentire una maggiore varietà qualitativa delle informazioni scambiate. L’idea di avere un parlamento composto da due camere che riflettano due diversi livelli di rappresentanza, due platee elettorali diverse, due meccanismi elettivi diversi, due logiche rappresentative diverse ovvero che svolgano funzioni diverse nell’ambito del processo decisionale, è una soluzione più coerente con i problemi posti dal governo delle società complesse e plurali rispetto alla soluzione di una istituzione rappresentativa unica oppure alla soluzione di due camere quasi perfettamente identiche nelle basi elettorali e nei meccanismi rappresentativi. Ed è per questo che essa si diffuse rapidamente negli stati moderni.

Storicamente i paesi federali – e dunque con evidenti caratteri di pluralità (sottosistemi nazionali, regionale, etnica,…) e relativi problemi di tensione tra autonomia dei sottosistemi e implementazione di decisioni democratiche omogenee su tutto il sistema – hanno adottato perlopiù da subito sistemi bicamerali con forti differenziazioni tra le camere (tipici i casi di Australia, Brasile, Canada, Stati Uniti, Svizzera, ecc…). Il fatto che anche stati non federali (Spagna, Sudafrica, ecc…) abbiano adottato sistemi analoghi è una conferma della consapevolezza diffusa del fatto che un bicameralismo differenziato ha una maggiore efficienza nella trasmissione dei feedback tra centro e sistema. Ed è altrettanto indicativo di questa dinamica il fatto che i paesi democratici moderni che hanno ancora parlamenti monocamerali sono molto pochi, demograficamente molto piccoli e molto omogenei dal punto di vista etnico (esempi: Israele, Danimarca, Finlandia, Grecia, paesi baltici).

Nel quadro delle democrazie moderne, il bicameralismo perfetto italiano, nel quale le due camere non solo hanno la stessa potestà legislativa ma sono anche espressione della stessa logica rappresentativa e sono elette con modalità pressoché identiche (al netto solo di inefficienze del tutto irrazionali) rappresenta un caso più unico che raro.

Con la riforma l’Italia si avvia a sperimentare una soluzione più comune nei moderni paesi democratici con alcuni tratti di originalità per quanto riguarda il riparto delle funzioni e il procedimento legislativo, che rispondono ad alcune esigenze specifiche della nostra situazione storica.

In sostanza, sia la teoria sia l’esperienza storica sembrano suggerire che siano buone idee:

  • mantenere un sistema bicamerale piuttosto che abolire del tutto il senato;
  • avere un senato eletto non direttamente dal popolo ma in un’elezione di secondo livello;
  • attribuire alle due camere funzioni parzialmente diverse e semplificare il procedimento legislativo.

E ciò mi convince ulteriormente dell’opportunità di sostenere il SI’.

Tu cosa ne pensi?

 

2 thoughts on “Una buona idea!

  1. luciano esposito says:

    Risposta al blog
    Intendo soffermarmi soltanto sulla valutazione della modalità elettiva e della rappresentatività del Senato e quindi sul bicameralismo contemplato nell’ipotesi della riforma oggetto della discussione in atto, in quanto sulla prima parte concordo totalmente.
    Ricordo che per molti anni venne indicata, come soluzione alla perdita di tempo delle doppie , triple e quadruple letture delle leggi che il bicameralismo perfetto produceva,la strada del monocameralismo. Poi intervenne (a partire dal 1987) il fenomeno leghista che impose ai partiti del cosiddetto “ arco costituzionale” il tema del federalismo per far fronte alla minacciosa propaganda secessionista della Lega Nord di Miglio e Bossi. Quindi l’assunzione di provvedimenti tendenti a dare maggiori poteri alle regioni in nome di un decentramento delle funzioni per meglio aderire alle pieghe della cosiddetta “società complessa”fino a giungere alla modifica del titolo V° della Costituzione con tutti i problemi che ha determinato nel rapporto Stato-Regioni. Quella stagione politica è passata tant’ che la stessa Lega Nord non si definisce più tale ed aspira alla leadership del centro destra per proiettarsi come guida politica dell’Italia intera. Quindi si poteva anche tener conto di questo fatto nuovo ed eliminare questo Senato delle autonomie ,così come viene configurato nella Riforma in questione, che non è condiviso neanche da chi invece dovrebbe esaltarlo.
    L’Italia non è una nazione federale, non lo è mai stata tant’è che le stesse Regioni sono state realizzate nel 1970(22 anni dopo il varo della Costituzione) perché nel corso della sua storia millenaria è stata sempre un paese diviso , non unitario e tendenzialmente separatista ;basta pensare all’istituzione delle Regioni a statuto speciale. A proposito, che si farà di queste autonomie speciali una volta che sarà approvato il Senato delle autonomie?Saranno elminate? O rimarranno magari accrescendone i poteri?
    Negli anni scorsi ,in tempi di propaganda federalista, la Fondazione Agnelli produsse uno studio ed un’analisi della situazione italiana avanzando la proposta di formare tre macroregioni coincidenti sostanzialmente con l’Italia del Nord, del Centro e del Sud. Non fu neanche presa in considerazione perché ritenuta troppo pericolosa perché riproponeva una divisione del paese che poteva pregiudicarne l’unità dopo averla conquistata a caro prezzo e dopo un difficile processo. E questo era lo stesso motivo per cui le regioni nacquero con ritardo.
    Ma come si sarebbe dovuto risolvere il problema del rapporto tra istituzioni centrali e periferiche? Io penso che si poteva mantenere in piedi ed in modo permanente la Conferenza Stato- Regioni magari intervenendo sulle materie di competenza. Quello che mi preoccupa del Senato delle autonomie è il problema della composizione e dei tempi delle elezioni regionali . Dal 1970 , quando ci fu la prima elezione regionale , col passare dei lustri molte regioni hanno votato in tempi sfalsati a causa di scioglimenti anticipati delle stesse (causa scandali e fallimenti vari)e spesso si sono verificati cambi di governo dovuti a maggioranze diverse. Cosa succederà nel caso in cui il Senato delle Autonomie (che si presuppone abbia una certa omogeneità con le maggioranze parlamentari ), sarà disomogenea rispetto alla maggioranza parlamentare? Si dice che non potrà mettere in discussione né la maggioranza parlamentare e né il governo che esprime, ma io non credo che non abbia alcuna incidenza, Anzi! Basta vedere quel che sta succedendo nel dibattito politico dopo che il M5S ha conquistato il governo di alcuni Comuni su un totale di 8mila. E poi come si eleggeranno questi senatori? E’ a questo punto che la riforma costituzionale va ad incrociarsi col sistema elettorale .Cose che non dovrebbero stare insieme in nessun momento tant’è vero che la Costituzione non prevede nessun sistema elettorale né esprime preferenze per una modalità o per un’altra. Lascia libero il Parlamento di decidere . Infatti quante ne sono state cambiate dal 1993 ad oggi? Quindi ci sarebbe spazio per una verifica attenta del dispositivo elettorale previsto dall’attuale legge(Italicum). Io non mi appassiono alla discussione delle preferenze e delle nomine degli eventuali senatori o deputati perché quella della scelta libera degli elettori la ritengo un ‘ illusione. Il cittadino elettore non ha mai goduto della vera libertà di scegliere, sia quando c’era il sistema delle quaterne (le correnti organizzate decidevano gli eletti) sia quando si è passati ai collegi uninominali(le forze politiche alleate si spartivano i collegi facendo operazioni assurde e paradossali che non avevano niente a che vedere col territorio). Però esiste il problema della rappresentanza che si sarebbe potuto risolvere con una legge delle primarie per scegliere i candidati per poi contendersi il seggio col doppio turno di collegio. In tal modo tutti avrebbero partecipato al primo turno garantendo il pluralismo politico e poi la sfida sarebbe stata portata avanti tra i primi due selezionati, la qual cosa avrebbe potuto consentire anche l’aggregazione tra forze omogenee sul piano culturale politico e programmatico Lo so che le leggi passano se si hanno i numeri per farle passare altrimenti ci si deve acconciare a trovare le soluzioni più condivise. Ma nel caso specifico dell’Italicum la condivisione è piuttosto limitata . Ed è proprio il combinato tra riforma elettorale e quella costituzionale che potrà pregiudicare l’esito favorevole per quest’ultima. L’italia è un paese a cultura pluralista e non ammette la “reductio ad unum” chiunque ha tentato di farlo non è riuscito. La ricchezza delle nostra cultura è un portato delle nostra storia che non si cancella facilmente. Specialmente se si pensa che dietro ogni pensiero si cela anche un interesse economico per il proprio gruppo, il proprio ceto, la propria classe sociale e addirittura per la propria “famiglia”. Da qui la complessità sociale e politica e la difficoltà della rappresentanza degli interessi.
    E allora , proprio perché l’intento era quello di semplificare e velocizzare la legiferazione per metter il paese al passo coi tempi della società digitale, sarebbe stato preferibile proporre una sola camere composta da 500 deputati con poteri potenziati e la sfiducia costruttiva. Le Regioni che si occupano del governo del territorio ,con poteri definiti in modo chiaro e la possibilità di contestare verso il governo in caso di emanazione di leggi che contrastano con i poteri e le deleghe assegnate. E la Conferenza Stato – Regione sarebbe stato il luogo giusto per dirimere le controversie.
    lucianesposito

    Like

  2. Provo a rispondere a qualcuno dei tuoi spunti.
    Il post cerca di spiegare perché, in base ad alcuni risultati robusti della teoria della democrazia:
    1. il bicameralismo è in generale più efficiente del monocameralismo;
    2. un parlamento nel quale una camera non è eletta a suffragio universale ma in un’elezione di secondo livello è più “democratico” di un parlamento nel quale entrambe le camere riflettono la stessa logica rappresentativa;
    3. la differenziazione di funzioni tra le camere rende il processo deliberativo più efficiente e democratico.
    Queste questioni sono prettamente teoriche e hanno validità a prescindere dal dibattito politico e dall’influenza di questa o quella forza politica (Lega Nord o altro).
    I rapporti funzionali tra istituzioni centrali e autonomie locali c’entrano solo relativamente con la riforma del Senato; hanno più attinenza con la riforma del Titolo V (a cui dedicherò il prossimo post).
    Il meccanismo elettorale con cui saranno effettivamente eletti i nuovi senatori può essere una questione interessante ma non è centrale, perché non influenzerà più di tanto l’effettivo assetto del sistema.
    Il Senato avrà verosimilmente maggioranze assai variabili perché non sarà eletto unitariamente: la sua composizione varierà con le continue surroghe dei suoi membri, il cui mandato coincide con quello della carica locale. Ma se il Senato avrà maggioranze diverse da quella della camera, ciò non potrà incidere molto sulla legislazione, perché il Senato non voterà né la fiducia al governo né i principali atti di spesa. Ciò che si avrà sarà una dialettica tra una camera nella quale vive una maggioranza politica e una camera nella quale verosimilmente vengono a comporsi maggioranze variabili sulla base di interessi locali diffusi: questo d’altronde è esattamente lo scopo della riforma, è in linea con quanto accade in molti sistemi democratici ed è proprio il tipo di feedback centro-periferia di cui un sistema democratico in una società poliarchica ha bisogno.
    Per ragioni teoriche che è complicato spiegare qui (ma su cui magari possiamo tornare) è mia ferma opinione che le leggi elettorali non influenzano l’efficienza complessiva del sistema. Perciò insisto sul fatto che la valutazione della riforma deve essere tenuta distinta da quella sulla legge elettorale.

    Like

Leave a comment