I puntini sulle i

Partecipando a dibattiti sul referendum mi sono reso conto dell’esistenza di alcuni refrain che, oltre a deviare l’attenzione del pubblico dal vero nocciolo della faccenda e viziare così la discussione, la rendono anche particolarmente ripetitiva e noiosa. Ecco allora una rapsodia di appunti per mettere i miei personali puntini sulle i di questi motivetti che mi hanno un po’ stufato.

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I Padri Costituenti. Ovvero: per farla finita con la storia riscritta a consolazione delle masse.

I costituenti non furono né particolarmente saggi né particolarmente coesi. Basta leggersi i resoconti dei dibattiti dell’Assemblea Costituente e i giudizi che autorevoli membri della stessa diedero sulla Costituzione all’indomani della sua approvazione. Il processo di elaborazione del testo costituzionale rivelò subito gravi carenze di fondazione teorica (la ragione per cui Salvemini definì la Costituzione “un Himalaya di somaraggini”) e fu interamente ispirato dalla necessità di portare a sintesi culture politiche – quella cattolica e quella marxista, in particolare – drammaticamente contrapposte e portatrici di una visione dello stato assai poco consona alle idee di fondo della democrazia liberale classica.

La vera virtù dei Costituenti fu invece il coraggio. Gli autori della Costituzione ebbero il coraggio di assumersi dei rischi, di siglare dei compromessi discutibili, di accettare soluzioni tecniche deboli e problematiche pur di chiudere con il passato monarchico che aveva condotto al fascismo e dare vita a un processo politico di tipo nuovo. Si può ragionevolmente ritenere che nessuno di loro pensasse di aver contribuito ad elaborare un capolavoro e che nessuno di loro fosse del tutto ignaro dei problemi che la Costituzione recava con sé. Ma il loro coraggio fu quello di accettare l’idea che si sarebbe trattato di problemi nuovi, a cui si sarebbero date nel futuro risposte nuove. Il loro scopo condiviso era avviare un processo democratico, un processo che avrebbe avuto bisogno di un rodaggio e di molti successivi aggiustamenti, ma che avrebbe tratto la forza di autocorreggersi proprio dalla spinta di questo avvio.

E’ esattamente quello che dobbiamo fare anche noi con il referendum del 4 dicembre: avere il coraggio di dare avvio e sostegno a un processo di trasformazione radicale della democrazia italiana e assumerci il rischio di commettere errori, sapendo che affrontare problemi di tipo nuovo potrà essere salvifico per un paese che sta morendo.

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Gli errori di Renzi. Ovvero: chi tira la carretta in un paese di mosche cocchiere?

Renzi ha probabilmente sbagliato la campagna ma questo non può essere un alibi né per chi non sta muovendo un dito né per chi voterà per conservare lo status quo. Gestire la comunicazione politica nelle moderne società di massa è un’impresa complicatissima ed è fin troppo facile giudicare i limiti di una campagna dopo che se ne sono registrati gli scarsi risultati nei sondaggi. Renzi aveva ottime ragioni per investire la propria immagine nella battaglia per il SI’ e per legare proprio all’esito del referendum le sorti del suo governo e di una legislatura nata e tenuta in vita solo dall’impegno alle riforme.

Questo refrain sulla personalizzazione e gli errori della campagna comunicativa, francamente, mi sembra solo l’ennesimo luogo comune usato in chiave di autoassoluzione da quel popolino pseudointellettuale che non contribuisce mai a nulla, non si spende mai per nulla, ma attende alla finestra di capire di che colore è il carro del vincitore per buttarcisi sopra. Per come la vedo io, a fronte di un PD che – al di là delle sue patetiche divisioni – non ha mosso un solo dito per sostenere questo referendum; a fronte di comitati per il SI’ esistenti solo sulla carta e spesso neppure su quella; a fronte di parlamentari nazionali, parlamentari europei, consiglieri regionali, sindaci, consiglieri comunali, che sono capaci di fare il diavolo a quattro quando si tratta di mettere insieme le preferenze che servono a garantirsi lo stipendio ma non si sono neanche alzati dalla sedia per sostenere una battaglia politica di cambiamento; a fronte di tutto ciò, Renzi, che ha scommesso la sua faccia e il suo futuro politico su queste riforme, potendosene invece benissimo stare al calduccio di Palazzo Chigi a far finta di fare le cose, come hanno fatto per trent’anni i suoi predecessori, per me si è dimostrato un fuoriclasse, un autentico alieno apparso nel sistema, e si è guadagnato tutto il mio rispetto, errori o non errori.

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La legge elettorale. Ovvero: se proprio volete parlare di qualcosa che non c’entra niente almeno fatelo con cognizione di causa.

Nel valutare le leggi elettorali non bisogna tenere conto solo del trade-off tra rappresentatività e governabilità. Anzi, dal mio punto di vista, la significatività di questo trade-off è assai sopravvalutata, ma non è questa la sede per entrare in una simile discussione. Nel valutare le leggi elettorali bisogna innanzitutto comprendere quale logica della rappresentanza esse traducono. Leggi proporzionali, maggioritarie o con premi di maggioranza sono tutte potenzialmente ugualmente “rappresentative”, ma sulla base di logiche della rappresentanza diverse. Una discussione più utile è allora quella che punta ad esplicitare tale logica e a valutare con quanta efficienza la legge la realizza.

Un miglior modo di valutare le leggi elettorali dal punto di vista della loro “democraticità” (parola tra le più vuote e fraintese della storia…) è fare le seguenti due cose:

  1. misurare che percentuale dei seggi da assegnare risulta soggetta a una reale contesa politica e che percentuale è invece sottratta alla vera contendibilità da meccanismi di autoprotezione delle leadership: questo consente di farsi un’idea di quanto il sistema sia effetttivamente accessibile agli outsider, aperto al ricambio e perciò democraticamente inclusivo;
  2. misurare lo scarto che sussiste tra l’output del processo decisionale realizzato sulla base della legge elettorale e le preferenze dell’elettore mediano: questo consente di farsi un’idea di quanto efficientemente il sistema riesca a tradurre in decisioni la “volontà del popolo”.

Il resto sono solo discussioni incompetenti.

Dal punto di vista della prima misura, sia il maggioritario in vigore fino al 2006 sia il famigerato Porcellum si sono caratterizzati per una percentuale piuttosto bassa di seggi effettivamente contendibili (si stima inferiore al 50%). L’Italicum, in ragione dei collegi piccoli, delle preferenze e di un premio di maggioranza piuttosto ridotto, potrebbe portare questa percentuale intorno al 70-75% (il che è, tra l’altro, la vera e unica ragione per la quale la cosiddetta minoranza del PD lo osteggia così violentemente…). Si tratta di un miglioramento considerevole dal punto di vista della inclusività.

Per quanto riguarda la seconda misura, il livello di insoddisfazione generale e di disaffezionamento dalla partecipazione politica che si registra in Italia, oltre ai continui cambi di fronte che si verificano dopo ogni elezione, depone chiaramente a favore dell’idea che il processo decisionale sperimentato negli ultimi trent’anni abbia fallito nel determinare politiche apprezzate dall’elettore mediano e, rispetto a questo fallimento, tutte le leggi elettorali adottate finora (proporzionale, maggioritario, proporzionale con premio di maggioranza) sono state identicamente inefficienti.

L’Italicum non mi piace granché perché credo che la logica della rappresentanza che lo ispira non risolva i veri problemi della nostra democrazia. Cionondimeno lo considero un netto passo avanti rispetto al Porcellum e al proporzionale puro che è venuto fuori dai tagli operati dalla Corte Costituzionale sul Porcellum.

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La democrazia in pericolo. Ovvero: di pagliuzze e travi.

La democrazia italiana ha in effetti un grande problema, di cui però nessuno sembra accorgersi e che non viene mai tirato in ballo nei dibattiti che nascono a partire dal referendum. Questo problema è la dimensione del tutto fuori controllo che hanno raggiunto i fenomeni di corruzione elettorale. La realtà pura e semplice è che, sia nelle elezioni primarie sia in quelle ufficiali, ad ogni livello del sistema istituzionale, una diffusissima e costante pratica di corruzione elettorale (compravendita di voti individuali e a pacchetti, voto di scambio, clientelismo spinto fino a vere e proprie forme di feudalesimo politico, eccetera) determina l’effettiva costituzione di una parte significativa del ceto politico posto al comando della spesa pubblica. Se la qualità della classe dirigente, del dibattito politico, della gestione della cosa pubblico e perfino della tecnica legislativa è degradata in maniera così rapida ed evidente negli ultimi vent’anni, ciò è dovuto in misura significativa al fatto che l’accesso alle cariche pubbliche (e, a catena, ai ruoli chiave di tutti gli apparati amministrativi) è gravemente viziato da dinamiche totalmente illegali e immorali.

Volete discutere dei pericoli che incombono sulla nostra democrazia? Bene, discutete di questo. Vi preoccupano le “derive” autoritarie e non che potrebbe prendere il sistema? Benissimo, affrontate questa faccenda e lasciate perdere le stupidaggini.

É bene essere consapevoli del fatto che non basterà mai l’intervento repressivo della magistratura a portarci fuori da questo buco nero che sta inghiottendo il sistema. In ogni società l’apparato penale, per definizione, può reprimere solo la devianza marginale. Quando un fenomeno di illegalità diventa epidemico e sistematico non bastano tutte le inchieste di questo mondo a sradicarlo (e la lezione del 1992 e di “manipulite” avrebbe dovuto essere conclusiva a riguardo). Solo un cambio nella cultura sociale e nei rapporti di forza tra gruppi di interesse può invertire la tendenza alla replicazione e all’autotutela della peggiocrazia italiana. Come si faccia a sollecitare e realizzare un tale cambio è, tuttavia, una questione che nessuno scienziato sociale pare sia ancora riuscito a risolvere.

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Il nuovo senato e la democrazia. Ovvero: ogni scolaretto sa che…

In democrazia non si sceglie mai il meglio ma sempre e solo ciò che è valutato il meno peggio e con un livello di confidenza anche piuttosto basso. Inutile farne un dramma.

La democrazia è disfunzionante non solo in Italia ma in tutto il mondo, non solo oggi ma da sempre.

Ma, soprattutto, l’idea di fondo della democrazia non ha niente a che fare con un’astratta e imprecisabile “volontà del popolo” (che diavolo sarebbe ‘sto “popolo”? che grado di omogeneità ci potrebbe mai essere nella galassia di interessi che si esprimono in una società complessa da giustificare l’idea stessa di una volontà unica, coerente e ben definita?)

L’idea di base della democrazia moderna ha a che fare con la protezione dal potere. La democrazia moderna non è altro che un complesso di meccanismi (di fatto coordinati tra loro in modo inefficiente e problematico) che serve a proteggere l’individuo medio dagli abusi del potere, a limitare l’esercizio del potere da parte di chi è potente e a permettere che la dialettica tra gli interessi non si risolva solo (o perlomeno non solo e non sempre) nell’affermazione del più forte. Tutto qui.

La democrazia moderna è fatta sostanzialmente di tre cose, che storicamente si sono rivelate essere le soluzioni più efficaci al problema della protezione dell’individuo dal potere e dalla violenza: lo stato di diritto, il libero mercato e le istituzioni politiche consensuali. Per valutare la “democraticità” di un moderno sistema democratico bisogna valutare il grado di efficienza e di reciproca coordinazione di questi tre istituti nel sistema.

Personalmente, sono convinto che l’inefficienza delle istituzioni politiche rappresentative sia l’aspetto meno critico della democrazia italiana, la quale ha invece serissimi problemi nell’implementazione di un vero stato di diritto e di una vera economia di mercato. Per questo non mi appassiono molto alle ciance sulle derive autoritarie. Ma, per gli amanti del genere, sappiate che il nuovo senato disegnato dalla riforma non indebolisce affatto la democrazia ma la rafforza.

Il nuovo Senato non sarà composto in una singola campagna elettorale nazionale, sarà invece formato da molteplici elezioni e surroghe di componenti in un processo praticamente ininterrotto. Esso catturerà dunque più della Camera dei Deputati la mutevolezza dell’opinione pubblica e la complessità degli interessi che si esprimono nelle articolazioni territoriali dello stato. Un senato come l’attuale, eletto contestualmente all’altra camera, riflettendo la medesima maggioranza politica potrebbe, in presenza di un sistema elettorale fortemente maggioritario ad esempio, prestarsi ad avallare modifiche costituzionali interpretabili come “derive autoritarie” (visto che piacciono gli spauracchi, usiamoli pure). Il nuovo senato no. Il nuovo senato non rispecchierà la maggioranza politica della Camera e, per definizione, quando interverrà nel processo legislativo – come nel caso di riforme costituzionale – esprimerà il punto di vista di interessi altri e potenzialmente contrapposti rispetto a quelli rappresentati nella camera, offrendo dunque maggiori garanzie di dialettica e controllo sulle iniziative della maggioranza di governo.

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La discussione nel merito. Ovvero: è sempre con le belle parole che si va in culo alle masse.

Questa storia di mettere la gente comune a discutere di commi e codicilli e a discettare di complesse questioni di ingegneria istituzionale con la pretesa di “entrare nel merito” della riforma mi sembra francamente una presa per i fondelli. Fare previsioni sulle implicazioni di riforme dei meccanismi istituzionali è sempre complicatissimo e raramente utile. I cambiamenti per definizione portano problemi, ma si tratta di problemi di tipo nuovo. Valutare preventivamente i pro e i contro rispetto al funzionamento del sistema di problemi di tipo nuovo mi sembra un esercizio puramente speculativo. Per questo resto convinto che il merito del referendum, il suo autentico merito, non riguardi affatto i dettagli delle norme che vengono proposte ma riguardi piuttosto una decisione prettamente politica sull’alternativa tra mantenere lo status quo (con tutte le relative probabili involuzioni) o avviare e sostenere un processo di sommovimento radicale del sistema nel suo complesso, che il governo Renzi ha coraggiosamente posto al centro dell’agenda. E sono altresì convinto che per farsi un’opinione razionale su questo merito sia necessario valutare attentamente quali saranno gli effetti delle due possibili alternative. Come reagiranno i nostri creditori internazionali, i potenziali investitori, i paesi dell’area euro che si sentono molto condizionati dal pericolo di una nostra crisi finanziaria? Quali saranno gli effetti sulla nostra credibilità e su tutto ciò che da essa deriva? Mi pare piuttosto chiaro dalle autorevoli dichiarazioni di leader internazionali che si sono accumulate in questi giorni che il mondo guarda con attenzione e una certa apprensione alla scelta che gli italiani faranno il 4 dicembre. A nessuno frega niente, ragionevolmente, delle competenze del nuovo senato, del CNEL, della potestà legislativa delle regioni o della lunghezza dell’art.70. Ma a tutti interessa capire se e come gli italiani intendono reagire al proprio declino, con quanta serietà stanno affrontando il tema della riforma del sistema, quanta consapevolezza hanno della gravità della loro crisi economica e sociale e quanta coesione nazionale sapranno esprimere di fronte alla necessità di prendere di prendere decisioni importanti assumendosene i relativi rischi. Queste sono le cose che saranno valutate nel mondo la sera dello scrutinio. E queste sono le cose che dovremmo valutare noi quando avremo in mano la matita per segnare la croce sulla scheda.

 

Tu cosa ne pensi?

 

Di date, leggi elettorali ed altre questioni minori che si agitano intorno al referendum

Qualche sera fa, in uno di questi salottini televisivi dove si fa finta di discutere di politica, ho sentito un individuo, sedicente giornalista e dalla straordinaria somiglianza con Nosferatu, sostenere testualmente che al referendum bisogna votare NO perché grazie al governo “quando una banca fallisce pagano i cittadini” e perché la polizia “non ce la fa più a fare i turni per tenere a bada” zingari e immigrati…

Noto con un certo orrore che la campagna referendaria continua ad alimentarsi in tv e sui social media quasi esclusivamente di cose come queste e, quando ci va bene, di imprecisioni, notizie false, ragionamenti inconsistenti e becera propaganda. Noto anche che nei salottini televisivi dove si spaccia per “informazione” e “servizio pubblico” l’intrattenimento più plebeo, a cianciare di riforme costituzionali e a fare da opinion maker sono usualmente convocati solo attori, attricette, cabarettisti e cantanti.

Sperando che prima o poi una seria mobilitazione politica sia promossa da qualcuno a sostegno del SI’, voglio intanto soffermarmi su alcune cosucce secondarie che vengono tirate in ballo ad ogni piè sospinto da chi rifiuta di fare una discussione di merito sulla riforma e approfittarne per ribadire alcuni fatti elementari.

 

La data del referendum: meglio votare prima o dopo?

I sostenitori del NO accusano il governo di voler procrastinare il più possibile la data del referendum. Il governo pare in effetti essersi convinto della necessità di sfruttare tutti i margini consentiti dalla legge per allungare i tempi della campagna elettorale. Personalmente, auspico che lo faccia e dichiari apertamente di volerlo fare per consentire lo sviluppo di un dibattito pubblico vero.

Ma perché mai gli avversari della riforma, autoproclamatisi difensori della costituzione e della democrazia, vogliono invece che si voti presto?

Una delle cose che la teoria delle decisioni ci dice è che quando la gente “pensa velocemente”, ossia prende decisioni in condizioni di insufficiente ponderazione, queste decisioni sono viziate sistematicamente da irrazionalità e che tale irrazionalità si sostanzia in alcune tendenze ben precise e statisticamente rilevabili:

  • la tendenza ad aumentare la propria avversione al rischio;
  • la tendenza a sottovalutare i vantaggi non immediati rispetto a quelli immediati;
  • la tendenza a conservare lo status quo anche davanti ai suoi scarsi risultati e alla sua scarsa utilità;
  • la tendenza a replicare nelle decisioni quanto è stato già deciso e pensato precedentemente, a prescindere dalla reale attinenza con la materia in oggetto.

Nel 2002 Daniel Kahneman e Vernon Smith hanno vinto un premio Nobel per l’economia per aver gettato le basi dello studio formale di questi fenomeni.

Ora, poiché:

  • ogni cambiamento è per definizione connesso a un qualche “rischio”;
  • ogni riforma è per definizione basata sull’idea del guadagno di vantaggi non immediati;
  • il NO alla riforma significa né più né meno che mantenere lo status quo per altri trent’anni;
  • i sostenitori del NO non hanno fatto altro fin dall’inizio che portare sulla materia referendaria l’eventuale scontento maturato nel paese nei confronti del governo rispetto a tutt’altre vicende;

tutto ciò considerato, chi cerca tempi di discussione e approfondimento più brevi, chi diffonde informazioni superficiali e imprecise, chi fa appelli a reazioni emotive (in particolare a quella rabbia antigovernativa e a quella mistica della rivolta che sono elementi centrali della nostra cultura sociale) non vuole altro, in realtà, che sollecitare una decisione viziata da irrazionalità. Chi invece lavora per avere tempi di discussione più lunghi, una maggiore informazione sul merito della riforma e una maggiore elaborazione delle implicazioni di lungo periodo della scelta referendaria, auspica che il voto si basi su decisioni più razionali.

Ora non è detto che il SI’ sia la scelta più razionale e il NO quella più irrazionale, ma i sostenitori del NO sembrano essere proprio convinti di questo, visto che spingono furiosamente per una campagna brevissima, tutta consumata tra le distrazioni dell’estate, per arrivare a un voto su cui pesino fortemente solo gli slogan dell’ultima settimana, che riguarderanno – che so – le banche, la scuola o gli zingari.

Anche io la penso come i sostenitori del NO: la loro posizione è indifendibile da un punto di vista razionale e per questo auspico che il governo consenta agli elettori la possibilità di meditare con lentezza sulla materia. Ecco dunque il mio suggerimento a Renzi e ai comitati del SI’: allunghiamo i tempi della campagna elettorale sfruttando tutti i margini consentiti dalla legge e, soprattutto, moltiplichiamo le occasioni di discussione, confronto, approfondimento, elaborazione. Il più possibile. Ne abbiamo solo da guadagnare.

 

Il referendum non era obbligatorio e a chiederlo sono stati innanzitutto i sostenitori del SI’.

Nella stesso salottino televisivo di cui sopra, due somari – anch’essi sedicenti giornalisti – insistevano contro un impacciato parlamentare del PD nel sostenere che il referendum confermativo è un obbligo stabilito dalla Costituzione, non avendo la riforma ricevuto il voto della maggioranza qualificata del parlamento. Non è così.

Il procedimento di revisione costituzionale e di formazione di leggi costituzionali è disciplinato dall’art. 138 della Costituzione, che lo differenzia dal procedimento di formazione della legge ordinaria, disciplinato invece dagli art. 70 e seguenti.

L’art. 138 recita:

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e sono approvate a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione.

Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi dei suoi componenti.”

In base a questo dettato, il Parlamento si esprime su una legge costituzionale con quattro votazioni (due per il Senato e due per la Camera in maniera incrociata). Per la prima votazione non è richiesta alcuna maggioranza qualificata e, perciò, la legge costituzionale o di revisione costituzionale può essere approvata anche a maggioranza semplice (ossia la maggioranza dei parlamentari che partecipano al voto). Nella seconda votazione è richiesta la maggioranza assoluta (ossia la maggioranza degli aventi diritto al voto). Tra prima e seconda votazione è comunque richiesto l’intercorrere di un tempo di almeno 3 mesi per permettere ai parlamentari di prendere piena coscienza di ciò che è stato votato permettendo una seconda votazione più consapevole (lo ricordassero i “difensori della Costituzione” fautori del “voto subito”…).

Se le Camere approvano il progetto di legge di revisione costituzionale con una maggioranza dei due terzi o superiore non è possibile chiedere l’indizione di alcun referendum confermativo e il testo approvato viene ordinariamente promulgato dal Presidente della Repubblica e poi pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Nel caso in cui, invece, in seconda votazione, la revisione costituzionale non ottiene il voto dei 2/3 dei componenti di ciascuna camera, è possibile, non obbligatorio, indire un referendum confermativo. Il progetto di revisione costituzionale viene pubblicato in questo caso nella Gazzetta Ufficiale a fini meramente notiziali affinché “un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali” (tre possibili alternative) entro tre mesi (e non oltre) richiedano un referendum confermativo. Il suo quesito e la regolarità della sua richiesta devono essere poi approvati dalla Corte di Cassazione. Se tuttavia nessuno dei soggetti deputati richiede l’indizione del referendum ovvero se la richiesta non è conforme a quanto stabilito dalla Costituzione, il referendum semplicemente non si tiene e la riforma viene promulgata, anche se approvata a maggioranza non qualificata.

Va da sé che una tale richiesta ha una natura oppositiva, essendo sostanzialmente una possibilità che la Costituzione concede a chi, essendo stato battuto nel Parlamento, è contrario al progetto di revisione costituzionale e intende appellarsi al corpo elettorale per ribaltare la decisione presa.

Nel caso della riforma Renzi-Boschi, dopo l’approvazione del testo di legge costituzionale, parlamentari di entrambe le camere, sia della maggioranza sia dell’opposizione, hanno sfruttato la possibilità di richiedere un referendum confermativo entro tre mesi dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 15 aprile, presentando distintamente istanze presso la cancelleria della Corte suprema di cassazione già a partire dal 20 aprile 2016. Tuttavia anche il Comitato per SI’ ha dato vita ad un’iniziativa popolare per l’indizione del referendum e l’8 agosto l’Ufficio Centrale ha dichiarato valide le firme depositate il precedente 14 luglio dando quindi il via ai sessanta giorni di tempo per l’indizione.

Se dunque il refferendum si terrà è perché ne è stata fatta esplicita richiesta da tanti parlamentari (molti della stessa maggioranza) e dai comitati del SI’, i quali hanno ritenuto opportuno convalidare la riforma con un espresso sostegno popolare.

Lo sanno tutti.

 

Una buona riforma non deve rendere il testo più “semplice” ma solo più funzionale.

Sento spesso i sostenitori del NO contestare la riforma costituzionale argomentando che essa, invece di rendere il testo più “semplice”, lo rende più “complicato”, ai limiti dell’incomprensibilità. A sostegno di questa tesi viene sempre addotto l’esempio dell’art. 70, la cui formulazione attuale è

“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere.”

e che la riforma trasforma invece in:

“La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.

Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.

L’esame del Senato per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la Camera può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri componenti.

I disegni di legge di cui all’articolo 81, quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati sono esaminati dal Senato della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data della trasmissione.

I Presidenti delle Camere decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti.

Il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati.”

Non so come dirlo in un modo che non suoni offensivo per qualcuno quindi lo dico così come mi viene: un argomento simile denota solo imbecillità in chi lo impugna e in chi lo accetta.

Sì, scrivere che le due camere fanno le stesse identiche cose è assai più semplice che scrivere dettagliatamente cosa fanno, se si decide di differenziarne funzioni e competenze. E allora?

Scopo di un buon testo costituzionale non è essere “semplice”, nel senso di elementare e chiaro all’uomo illetterato e pigro. Scopo di un buon testo costituzionale è disciplinare tante cose complesse e problematiche in un modo che sia utile al funzionamento del sistema democratico. Il semplicissimo e chiarissimo art. 70 ancora in vigore ha clamorosamente fallito nel conseguire questo scopo, proprio per questo riteniamo sia utile sostituirlo con un articolo lungo e complicato, faticoso ai più, ma che magari sarà capace di rendere più efficienti le istituzioni parlamentari.

 

La legge elettorale non determina la qualità della democrazia, non determina i caratteri del sistema politico, non risolve il problema della scelta sociale e, soprattutto, NON C’ENTRA NIENTE CON QUESTO REFERENDUM!

Visto che la riforma della legge elettorale viene tirata costantemente in ballo e considerato che questo tema pare appassionare più degli altri è giusto spendere qualche parolina in proposito.

Credo che se la legge elettorale interessi più dei contenuti della riforma costituzionale ciò dipenda da alcuni motivi:

  • è un argomento percepito come “più semplice”: chiunque ritiene di poter avere un’opinione in materia sulla base di poche ed elementari considerazioni, dunque, piuttosto che scervellarsi sui dettagli tecnici dell’assetto istituzionale, i più preferiscono ragionare di proporzionale, preferenze e premi di maggioranza;
  • è un argomento percepito come “scottante”: in un mondo politico disseminato di trappole molti ritengono che sia indispensabile tenere gli occhi bene aperti affinché il “mio” voto conti e non sia manipolato, aggirato o cestinato con la carta straccia;
  • è considerata lo strumento attraverso cui il “potere” (“Essi!”) può limitare e controllare la “democrazia”.

Il fatto è che, per quanto irrazionali e basati su mancanza di informazione e comprensione, le ansie dell’elettorato davanti alle modifiche della legge elettorale sono reali e pertanto meritano una qualche elaborazione.

Intanto vi do subito due brutte notizie (laddove ancora ne foste all’oscuro):

  1. il referendum d’autunno non ha in nessun modo attinenza con la legge elettorale: siamo chiamati a confermare le riforme costituzionali e non quella elettorale. Se vinceranno i SI’ la riforma detta “Italicum” resterà in vigore. Se vinceranno i NO resterà in vigore lo stesso;
  2. la riforma elettorale non ha rapporti di dipendenza con le riforme costituzionali: sia che la legge elettorale cambi sia che non cambi, le riforme costituzionali seguiranno il loro percorso autonomo.

Quella elettorale è una materia su cui la fantasia umana si è esercitata molto, inventando e sperimentando le soluzioni più disparate. Davanti al dato di fatto di una simile varietà, la domanda più intelligente che una persona dovrebbe porsi è: perché una simile varietà? Come mai dopo secoli di esperimenti in decine di democrazie non si è ancora giunti a un sistema elettorale unanimemente soddisfacente, che metta a tacere ogni critica? É una delle domande che la teoria si è posta e sono convinto che la risposta non piacerà a molti.

Lo stato democratico è un’entità la cui funzione principale è quella di tradurre le preferenze individuali in una scelta sociale. Gli individui hanno spesso interessi e valori contrapposti che danno luogo a sistemi di preferenze assai diversi tra loro. Lo stato democratico deve comporre questa diversità in una scelta sociale unica, che sia il più possibile razionale e coerente con le scelte espresse a livello individuale. Il processo di creazione di questa scelta sociale è in genere assai complesso e nelle democrazie moderne è anche limitato da una lunga serie di vincoli (etici, economici, dovuti all’interazione con gli altri stati, ecc.) che fanno dello stato non un mero calcolatore delle preferenze ma il luogo di una loro rielaborazione e sintesi. In questo contesto, i sistemi elettorali sono uno dei principali strumenti di cui lo stato democratico si serve per registrare le preferenze individuali e comporle in una scelta sociale. I modi in cui in generale gli ordinamenti delle preferenze individuali possono (o non possono) essere composti in una scelta sociale e l’efficienza con cui i sistemi elettorali possono (o non possono) contribuire a questo scopo sono stati ampiamente studiati dalla teoria. Alcuni tra i risultati più importanti e robusti conseguiti dalla ricerca in materia ci dicono cose sorprendenti:

  • non esiste nessuna regola o procedura di scelta che consenta di definire un ordinamento sociale rispettando simultaneamente tutti i criteri della “buona” democrazia;
  • a meno di non conferire poteri dittatoriali a qualcuno, non è possibile che lo Stato agisca secondo le regole di coerenza proprie di un individuo razionale;
  • qualunque sistema elettorale in cui gli individui esprimono le loro preferenze tramite un voto tra diverse alternative ed in cui valga la regola della maggioranza, è sempre manipolabile, può sempre condurre a paradossi (la scelta sociale contraddice la maggioranza delle scelte individuali), non può mai garantire la coerenza tra scelte individuali e scelta sociale, cioè non può mai garantire la democraticità della democrazia;
  • affinché il voto a maggioranza dia esiti affidabili occorrerebbe escludere dalla votazione coloro che hanno preferenze “anomale”;
  • i processi decisionali sono sempre imperfetti: si arriva ad una scelta o sacrificando l’efficienza o sacrificando la democraticità del sistema.

Chi volesse approfondire la questione troverà in giro un’amplissima letteratura.

Una conclusione su cui tutti gli studiosi concordano è che non esiste nessuna legge elettorale perfetta. Un’altra è che ogni ricerca o speculazione sulla democrazia perfetta è tempo assolutamente sprecato.

Una conclusione a cui io giungo (ma molti studiosi magari non saranno d’accordo) è che la materia elettorale non ha affatto la centralità che le si attribuisce nel dibattito sulla qualità della democrazia e che ci si potrebbe benissimo concentrare su altre questioni ben più rilevanti.

Una serie di miti che alimenta la discussione sulla legge elettorale però mi sembra francamente del tutto smentita dalla semplice evidenza dei fatti.

Ad esempio:

  • non è vero che il sistema maggioritario garantisce maggiore stabilità: tanti governi “eletti” dal sistema maggioritario in vigore dal 1994 al 2006 sono durati poco e sono stati sostituiti in parlamento da cambi di maggioranza;
  • non è vero che il sistema maggioritario garantisce maggiore governabilità: tutti i governi “eletti” dal sistema maggioritario in vigore dal 1994 al 2006 si sono caratterizzati per la straordinaria incapacità di riformare il paese e risolverne i problemi strutturali;
  • non è vero che esista una legge elettorale che affida ai capi partito il controllo totale sul parlamento: se una tale legge esistesse, essa sarebbe il famigerato Porcellum, eppure, nonostante il Porcellum consentisse ai capi partito di nominarsi le liste, di determinare l’elezione dei parlamentari attraverso il controllo degli ordini di lista e di avere solide maggioranze, il “controllo” che essi hanno avuto sul parlamento non è bastato ad impedire ribaltoni clamorosi, insediamenti di governi tecnici, il passaggio di centinaia di parlamentari da uno schieramento all’altro e l’anarchia totale all’atto dell’elezione del Presidente della Repubblica nel 2013;
  • non è vero che le leggi elettorali determinano i caratteri del sistema politico: nonostante vent’anni di leggi maggioritarie e di un aspro confronto bipolare, nulla ha impedito all’Italia di ritrovarsi oggi con un sistema politico potenzialmente paralizzato dalla presenza di tre poli, anziché due, reciprocamente incompatibili.

Aggiungerei a questi miti sfatati dalla realtà anche il mito della democrazia diretta: non è vero che la democrazia diretta (quella che si esercita nei referendum, ad esempio, e che si vorrebbe sostituire a quella indiretta attraverso l’uso di internet e sondaggi) sia il sistema più efficace nel dare rappresentanza alla preferenze degli elettori. Il referendum inglese sulla Brexit ha rischiato e rischia ancora di mandare in frantumi l’integrità del Regno Unito proprio per la sua natura “diretta”, perché la mancanza di quorum e riequilibrio dei voti regionali, la sottrazione di una decisione di sistema alla sintesi politica del parlamento ed il suo affidamento al voto popolare, hanno di fatto schiacciato le preferenze di alcune delle nazioni del Regno (Scozia e Irlanda del Nord) in una scelta che non le rappresenta. Ma questa è un’altra storia…

Le uniche vere conclusioni razionali che devono essere tratte da tutto ciò è che per rendere la democrazia almeno un po’ “democratica” è necessario fare sempre due cose.

La prima è delineare un’area nella quale nessun decisore, per quanto maggioritario e rappresentativo, possa compiere decisioni, ossia fissare dei limiti alla possibilità stessa della legislazione, con lo scopo innanzitutto di proteggere fondamentali spazi di libertà per coloro che non si sentono rappresentati nella scelta e per coloro che sono esclusi o si escludono dallo stesso gioco della democrazia. È il tema di tutto il costituzionalismo moderno, di tutta l’elaborazione moderna in materia di diritti umani e libertà fondamentali che pongono argini all’azione di governi e parlamenti.

La seconda è impedire una coerenza piena tra la scelta compiuta al momento delle elezioni (il programma, le proposte, ecc.) e le scelte che effettivamente saranno compiute in sede di decisione. Lo spazio di questa fondamentale incoerenza è lo spazio che consente di includere chi è escluso dalla scelta e di temperare le contrapposizioni tra interessi maggioritari e minoritari. È lo spazio della politica. È lo spazio che si realizza con quelle previsioni costituzionali che impediscono qualsiasi vincolo di mandato per i rappresentanti del popolo e impongono che ciascun singolo rappresentante interpreti la propria funzione in riferimento all’interesse globale della nazione nel suo insieme e non in riferimento all’interesse – per quanto maggioritario – che egli espressamente rappresenta.

Chi non comprende l’importanza di queste limitazioni semplicemente non comprende cosa sia la democrazia. Quelli che propongono di indebolire le limitazioni costituzionali all’azione legislativa in nome della “volontà popolare” o di vincolare i deputati ad un programma, impedendo loro di cambiare opinione o di votare sulla base di valutazioni più complesse dell’interesse nazionale in gioco al momento contingente della votazione, sono quelli che concretamente minacciano di indebolire la democrazia e infliggerle danni ben più gravi di quelli prodotti da qualsivoglia legge elettorale.

Tu cosa ne pensi?

Una buona idea!

Poiché sono un sostenitore del SI’ e ritengo che con il referendum si influenzerà in maniera decisiva il futuro del paese, sono convinto che sia nell’interesse della mia parte agire perché la campagna referendaria viva il più possibile di discussioni di merito e si arrivi al voto con una diffusa consapevolezza delle poste in gioco. Come tanti analisti hanno fatto notare, Renzi aveva inizialmente cercato di trasformare il referendum anche in un momento di legittimazione della sua leadership. Lo aveva fatto ritenendo – un po’ narcisisticamente e un po’ ingenuamente – che la propria immagine fosse un capitale importante da investire sulle riforme. Purtroppo le dinamiche di fondo della nostra democrazia in questo momento storico hanno rivelato questo tentativo come un errore tattico. L’Italia oramai da diversi anni non fa altro che produrre “novità” politiche, innamorarsene follemente e poi consumarle e gettarle via in lassi di tempo brevissimi: non è improbabile che Renzi finisca nel novero di questo genere di novità e che un equilibrio stabile per il sistema politico sia ancora di là da venire. D’altronde, un dibattito pubblico nutrito a forza di soli slogan, twit, urla isteriche e deduzioni infondate e sommarie non aiuta certo a venire fuori da questo circolo vizioso. In questo contesto, penso che la campagna referendaria potrebbe seriamente diventare l’occasione per sperimentare una nuova qualità del confronto politico e far risorgere piani di aggregazione basati su concezioni politiche, che prendano il posto delle attuali tifoserie da stadio. Vale la pena lavorare per questo obiettivo.

Dunque il merito delle riforme. Ma è fondamentale ricordare che il merito delle riforme non consiste solo nei dettagli dei dispositivi approvati ma anche negli effetti di secondo livello che le riforme in sé producono.

Checché ne pensi un certo popolino, l’Italia – come ogni altro paese del mondo – vive immersa in una intricatissima rete di relazioni e scambi con altri paesi oltre che con realtà e fenomeni sovranazionali e transnazionali. Tutto quello che in Italia si decide (o non si decide) influenza lo stato di queste interazioni in modi anche assai complessi e perciò difficili da prevedere. Questo pone, se non delle limitazioni, certo dei vincoli alla sovranità nazionale. I paesi democratici come l’Italia sono liberi di decidere politicamente cosa è meglio per sé; altrettanto liberi sono i partner internazionali e gli altri soggetti che interagiscono con noi di trarre dalle nostre decisioni le deduzioni che più ritengono opportune e di rapportarsi a noi nei modi che più ritengono convenienti. In un mondo fittamente interconnesso l’idea ottocentesca della democrazia come autodeterminazione assoluta del popolo è non solo irrealistica ma anche assai pericolosa. E ciò che in prima approssimazione potremmo chiamare “l’immagine” del paese – il patrimonio immateriale della propria reputazione e credibilità – produce effetti sempre più materiali e diretti. È una lezione che avremmo dovuto imparare bene già nel 2011, quando il degrado delle istituzioni italiane e della dialettica politica raggiunse un tale punto da spingere i mercati internazionali a chiedere un prezzo esorbitante per il rifinanziamento del nostro debito pubblico così da rischiare di renderlo quasi matematicamente insostenibile. Il risultato di quella crisi fu la necessità per le forze politiche di cedere il proprio mandato democratico a un governo di tecnici (privi di rappresentatività politica) che in fretta e furia – e dunque anche piuttosto male – riuscì a realizzare quei tre o quattro provvedimenti indispensabili a riportare la dinamica della spesa pubblica entro parametri bastanti a tranquillizzare i nostri creditori e a riparare gli spaventosi danni di immagine che vent’anni di berlusconismo e antiberlusconismo sfrenato avevano causato.

Data la nostra storia recente, fa benissimo Renzi ad insistere sugli effetti comunicativi delle riforme. L’Italia è un paese che non cresce economicamente da vent’anni e la cui produttività sembra declinare senza speranza; è un paese che ai test PISA continua a fare meno della media OCSE e a stazionare al livello di paesi come Turchia e Tunisia; è un paese che esprime da decenni una classe dirigente considerata tra le più corrotte, parassitarie, improduttive e predatorie del mondo occidentale ed è percepito dagli osservatori internazionali come sostanzialmente incapace di autoriformarsi e di modernizzarsi. Ebbene, quando il parlamento di questo paese ha votato per riformare se stesso, accettando di ridimensionare drasticamente una delle camere, di semplificare il processo legislativo e di ridurre i propri costi di funzionamento, il guadagno di immagine internazionale che se ne è ricavato è stato considerevole e Renzi ha ragione quando enfatizza questo aspetto della faccenda.

Il voto al referendum va inserito in questa cornice. Se vinceranno i SI’, il segnale di sostegno al percorso di autoriforma del sistema sarà percepito nel mondo come la conferma di una diversa credibilità del paese, come la dimostrazione che il declino non è inevitabile e che ci sono in Italia sufficienti consapevolezza della crisi in cui versa e sufficienti risorse per reagire. Se vinceranno i NO, il metamessaggio che arriverà a chi ci osserva dal di fuori dei nostri confini, sarà l’immagine di un paese diviso, inconsapevole del proprio declino, incapace di compiere sforzi coerenti e di mostrarsi coeso davanti alla necessità di cambiare per non perire.

Chi crede che il referendum sia una partitina interna per “mandare a casa Renzi” farebbe bene a riflettere su queste dinamiche. Chi si esercita costantemente a trovare difetti nei dettagli della riforma e ad insistere che la riforma potrebbe e dovrebbe essere migliore di come è (e di quale riforma a questo mondo non si potrebbe d’altronde dire lo stesso?) farebbe bene a comparare con attenzione il peso e l’importanza dei dettagli del nuovo funzionamento istituzionale proposto rispetto al peso e l’importanza degli effetti politici indiretti e di sistema che la convalida o la bocciatura della riforma produrranno.

Da questo punto di vista, la parte della legge costituzionale che riguarda il Senato è senz’altro quella più importante, perché più densa di implicazioni simboliche e politiche.

Ripeto: l’immagine di un’assemblea di senatori – emblema della casta sprecona, improduttiva e corrotta – che vota per la propria autosoppressione, è stata un asset di credibilità acquisito al patrimonio. E va dato atto a Renzi di aver conseguito un risultato politico assolutamente fuori dal comune e per niente scontato. Con il referendum saremo chiamati innanzitutto a decidere che cosa vogliamo farne di questo asset, se investirlo e metterlo a frutto o gettarlo via nell’ennesimo singulto di irrazionalità autolesionista.

***

 

I punti chiavi della riforma sono ormai noti a tutti: si va a modificare contemporaneamente la composizione, i criteri di rappresentatività e le funzioni del Senato, con lo scopo esplicito di rendere più veloce a agevole il processo legislativo e ridurre i costi di funzionamento delle istituzioni parlamentari.

Attualmente: il Senato è composto di 315 membri eletti, di tutti gli ex Presidenti della Repubblica (senatori di diritto e a vita) e di un massimo di altri cinque Senatori a vita nominati dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti in campo sociale o culturale.

Dopo la riforma: sarà composto da un totale di 100 membri, di cui 74 consiglieri regionali, 21 sindaci e 5 nominati dal Presidente della Repubblica per altissimi meriti ma con un mandato di soli sette anni e non più a vita, oltre agli ex Presidenti della Repubblica, che restano senatori di diritto e a vita.

Attualmente: i senatori sono eletti con la stessa legge elettorale della Camera ma con il premio di maggioranza assegnato su base regionale e non nazionale e da elettori che abbiano compiuto 25 anni di età anziché i 18 previsti per la Camera. Queste piccole differenze nella platea e nel calcolo delle percentuale fanno sì che le due camere, pur riflettendo la stessa logica rappresentativa, risultano spesso composte da maggioranze di diversa consistenza o addirittura di diverso segno, con tutti i problemi di instabilità e trasformismo che ne derivano.

Dopo la riforma: i senatori saranno eletti da platee di secondo livello (consigli regionali, assemblee di sindaci), resteranno in carica per la durata del loro mandato originario (consigliere regionale, sindaco) e rappresenteranno sostanzialmente il sistema delle autonomie locali e non direttamente il popolo. Questo meccanismo dovrebbe garantire una maggiore omogeneità politica con la Camera, ma se anche tale omogeneità dovesse venir meno nel corso delle surroghe dei componenti, gli effetti sulla legislazione saranno limitati a causa delle ridotte funzioni deliberative del nuovo Senato.

Attualmente: il Senato vota su tutte le proposte di legge, che vengono promulgate solo quando sono approvate nello stesso identico testo da entrambe le camere. Basta la modifica anche solo di una parola o di una virgola per obbligare l’altra camera a discutere di nuovo il testo e a riapprovarlo. Ciò ha avuto storicamente l’effetto di rallentare il processo deliberativo ma soprattutto di assegnare un potere improprio di controllo sui tempi e sull’agenda alle forze di maggioranza, al governo o anche alle forze minoritarie che intendono esercitare azioni di blocco e di ostruzione. Da cui l’ulteriore effetto dell’abuso dei voti di fiducia e della decretazione d’urgenza.

Dopo la riforma: il Senato delibererà solo su proposte di leggi attinenti a poche materie (affari regionali, normativa comunitaria, leggi costituzionali, leggi sull’ordinamento degli enti locali, ecc…), avrà limitate possibilità di iniziativa legislativa, valuterà le politiche pubbliche con limitati poteri di intervento e non voterà più la fiducia ai governi, rendendo del tutto secondario il peso effettivo della propria composizione politica. Di fatto sarà una camera di raccordo tra il potere legislativo ed esecutivo nazionali e le autorità territoriali.

La si può vedere come si vuole, ma i vantaggi della riforma in termini di efficienza, semplificazione e risparmio a me paiono evidenti. D’altronde sono ampiamente argomentati da tutti i costituzionalisti che stanno sostenendo il SI’, perciò non mi ci dilungherò oltre. (Per maggiori dettagli sulle differenze tra il testo costituzionale attuale e quello riformato consiglio questo link: https://stefanoceccanti.wordpress.com/2016/03/02/carlo-fusaro-guida-al-testo-della-riforma-costituzionale/).

Ci sono diversi commentatori – alcuni per sincera convinzione, altri, per la verità, per solo benaltrismo – che ritengono che, invece di modificare la composizione e le funzioni del Senato, maggiore senso avrebbe avuto abolirlo del tutto. Trovo quest’osservazione interessante e, più che un’opinione, vorrei esprimere in proposito alcune considerazioni e fornire alcuni riferimenti teorici.

Non è possibile fare qui un riassunto di tutto il dibattito teorico che si è sviluppato negli ultimi tre secoli sulla rappresentanza negli stati moderni, sui limiti e i problemi della democrazia indiretta, sull’efficienza dei sistemi elettorali nel preservare le scelte sociali, sulla possibilità di armonizzare preferenze individuali e/o interessi dei sottosistemi sociali in una decisione sociale coerente, eccetera. Basti ricordare che la teoria della politica è molto avanti nel dettagliare e formalizzare questo genere di questioni (il che, francamente, mi fa provare molto imbarazzo quando vedo che i problemi teorici estremamente complessi dell’organizzazione e del funzionamento della rappresentanza democratica e del parlamentarismo si riducono nel nostro dibattito pubblico a bolse discussioni su “sapere chi vince e chi perde”, “il rispetto del programma”, “un mandato o due mandati”, eccetera).

Il parlamento bicamerale con almeno una camera eletta a suffragio universale è uno degli istituti dei cosiddetti “stati di democrazia classica”, ossia di quegli stati moderni la cui ispirazione democratica deriva dal parlamentarismo inglese, da quello della Francia post-rivoluzionaria e dalle istituzioni degli Stati Uniti d’America. Al di là delle differenze tra i vari paesi, il parlamento bicamerale è stato la soluzione ad un problema preciso, intuito politicamente dalle classi dirigenti e solo molto più tardi formalizzato dalla teoria. Il problema consiste nell’interpretazione della rappresentatività delle istituzioni parlamentari come trasmissione di informazione tra sistema sociale e centri decisionali.

In una società complessa – caratterizzata cioè dalla presenza di molteplici sottosistemi con un elevato grado di autonomia (autorità locali, organizzazioni di categoria, gruppi etnici, classi sociali, confessioni religiose, solo per fare degli esempi semplici) – l’elaborazione di una politica nazionale come momento di sintesi di interessi diversi e spesso contrastanti e, ancor più, la possibilità di imporre un tale politica in modo omogeneo sul piano nazionale sono compiti intrinsecamente complicatissimi che tendono a spingere il processo democratico verso il caos.

Fuori dai casi in cui per dimensioni e omogeneità del demos è possibile l’esercizio di una qualche forma di democrazia diretta, la democrazia, questo fantomatico “potere del popolo”, deve tradursi nella composizione di una scelta sociale razionale e coerente nella quale si ritrovino rappresentati almeno gli interessi di una parte maggioritaria della società. Data l’articolazione della società per piani di aggregazione e in sottosistemi relativamente indipendenti e reciprocamente interagenti, la realizzazione effettiva di questa scelta sociale è un processo incerto e problematico, che ha tanto maggiori probabilità di successo quanto più efficiente è il meccanismo di trasmissione delle informazioni ( = espressioni e manifestazioni degli interessi) tra rappresentati e rappresentanti. In che cosa consista questa “efficienza” e quali siano le condizioni della sua implementazione sono questioni assai problematiche.

La teoria ci dice che maggiore è la complessità del sistema governato dalle istituzioni, maggiore è la quantità di informazioni e feedback di cui il centro decisionale ha bisogno non solo per raggiungere gli scopi che si è prefissato ma anche (si badi bene!) per tutelare la stabilità del sistema e impedire che possa accadere qualcosa di irreparabile. Ma ci dice anche che nei moderni paesi democratici, il grado di complessità funzionale dei sistemi sociali e la sua dinamica evolutiva sono tali che il sistema non può più realmente trasmettere le informazioni disponibili e le istituzioni rappresentative non possono più realmente  comprendere e processare queste informazioni.

La teoria è già molto avanti nello stabilire che la democrazia è un sistema intrinsecamente contraddittorio e denso di aporie logiche, che la ricerca di una democrazia perfetta è pura perdita di tempo e che un più serio obiettivo politico è quello di rimodulare frequentemente i meccanismi e le istituzioni e mantenerli sufficientemente elastici da adattarsi al mutare delle esigenze.

 

Un rimedio non risolutivo ma coerente con la natura del problema della circolazione dei feedback tra sottosistemi sociali e centri decisionali è avere istituzioni rappresentative che, in virtù di una significativa differenziazione qualitativa delle platee democratiche rappresentate e dei meccanismi di trasmissione della delega, abbiano la possibilità al proprio interno di consentire una maggiore varietà qualitativa delle informazioni scambiate. L’idea di avere un parlamento composto da due camere che riflettano due diversi livelli di rappresentanza, due platee elettorali diverse, due meccanismi elettivi diversi, due logiche rappresentative diverse ovvero che svolgano funzioni diverse nell’ambito del processo decisionale, è una soluzione più coerente con i problemi posti dal governo delle società complesse e plurali rispetto alla soluzione di una istituzione rappresentativa unica oppure alla soluzione di due camere quasi perfettamente identiche nelle basi elettorali e nei meccanismi rappresentativi. Ed è per questo che essa si diffuse rapidamente negli stati moderni.

Storicamente i paesi federali – e dunque con evidenti caratteri di pluralità (sottosistemi nazionali, regionale, etnica,…) e relativi problemi di tensione tra autonomia dei sottosistemi e implementazione di decisioni democratiche omogenee su tutto il sistema – hanno adottato perlopiù da subito sistemi bicamerali con forti differenziazioni tra le camere (tipici i casi di Australia, Brasile, Canada, Stati Uniti, Svizzera, ecc…). Il fatto che anche stati non federali (Spagna, Sudafrica, ecc…) abbiano adottato sistemi analoghi è una conferma della consapevolezza diffusa del fatto che un bicameralismo differenziato ha una maggiore efficienza nella trasmissione dei feedback tra centro e sistema. Ed è altrettanto indicativo di questa dinamica il fatto che i paesi democratici moderni che hanno ancora parlamenti monocamerali sono molto pochi, demograficamente molto piccoli e molto omogenei dal punto di vista etnico (esempi: Israele, Danimarca, Finlandia, Grecia, paesi baltici).

Nel quadro delle democrazie moderne, il bicameralismo perfetto italiano, nel quale le due camere non solo hanno la stessa potestà legislativa ma sono anche espressione della stessa logica rappresentativa e sono elette con modalità pressoché identiche (al netto solo di inefficienze del tutto irrazionali) rappresenta un caso più unico che raro.

Con la riforma l’Italia si avvia a sperimentare una soluzione più comune nei moderni paesi democratici con alcuni tratti di originalità per quanto riguarda il riparto delle funzioni e il procedimento legislativo, che rispondono ad alcune esigenze specifiche della nostra situazione storica.

In sostanza, sia la teoria sia l’esperienza storica sembrano suggerire che siano buone idee:

  • mantenere un sistema bicamerale piuttosto che abolire del tutto il senato;
  • avere un senato eletto non direttamente dal popolo ma in un’elezione di secondo livello;
  • attribuire alle due camere funzioni parzialmente diverse e semplificare il procedimento legislativo.

E ciò mi convince ulteriormente dell’opportunità di sostenere il SI’.

Tu cosa ne pensi?

 

Dieci pessimi argomenti a favore del NO

Avevo deciso di dedicare il secondo post di questo blog all’analisi di alcuni dei punti della riforma, ma ho cambiato idea quando ho letto l’iracondo appello per il NO firmato da Gianfranco Pasquino (scienziato della politica che ho sempre stimato) e pubblicato sul Fatto Quotidiano. Ecco il link dove potete leggere il testo completo:

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/05/14/referendum-costituzionale-lappello-di-pasquino-macche-efficienza-e-risparmi-10-no-a-riforme-da-mercato-delle-pulci/2729149/

Ho deciso di dedicare questo post a rispondere punto per punto al decalogo di ragioni per il NO proposto da Pasquino perché – lo confesso – sono stato profondamente deluso da questa iniziativa.

Si tratta di un testo che trovo aggressivamente propagandistico ma che, ciononostante, merita di essere analizzato in dettaglio, se non altro perché propone una summa di tutti gli argomenti con cui i comitati del NO stanno animando la loro campagna. Il tenore della riflessione non è quello degli slogan che intasano i social network (“Renzi a casa!”, “Renzi merda!”, “Se vuoi togliertelo dai piedi ad ottobre vota NO!” e via antirenzando…), tuttavia le affermazioni di Pasquino sono talmente viziate da fallacie logiche che – proprio per il rispetto che devo alla sua storia intellettuale – non posso fare a meno di sottoporle a una critica serena ma rigorosa.

L’esordio – ahimè – è in pieno stile travagliesco:

“PER VOI CHE RAGIONATE E NON PLEBISCITATE
C’E’ CHI CI METTE LA FACCIA, NOI CI METTIAMO LA TESTA”

Dunque noi miserabili sostenitori del SI’ siamo già preliminarmente degradati ad individui acefali, succubi della propaganda di regime e pronti a plebiscitare il dittatore di turno. Ringrazio Pasquino per la stima e la compostezza con cui ha deciso di rivolgersi alla “controparte”: esprime tutta una cultura politica e una concezione della democrazia e del pluralismo che è assai antica e radicata e ha condizionato non poco la storia della repubblica, proprio fin dai suoi esordi costituzionali. Ma preferisco tutto sommato glissare e andare oltre per concentrarmi sugli argomenti di merito.

Ecco dunque i dieci punti. Di ciascuno di essi riporto estratti testuali che ne esprimono perfettamente il senso, tralasciando le parti puramente retoriche, e aggiungo sotto il mio commento:

  1. “Il NO non significa immobilismo costituzionale. […]Non pochi esponenti del NO hanno combattuto molte battaglie riformiste e alcune le hanno vinte (legge elettorale, legge sui sindaci, abolizione di ministeri, eliminazione del finanziamento statale dei partiti). Non pochi esponenti del NO desiderano riforme migliori […] Riforme migliori sono possibili.”

Giusto. Dalla parte del NO ci sono oggi diversi intellettuali che negli anni passati hanno sostenuto la necessità di profonde riforme della costituzione. Se oggi si oppongono a questa riforma è innanzitutto perché ritengono che si poteva farla meglio.

Anch’io in realtà sono convinto che sarebbe stato giusto approvare una riforma migliore (magari migliore in un senso diverso da quello che intende Pasquino, ma in ogni caso diversa da come ci viene presentata).  Ma sarebbe stato anche possibile? Evidentemente no. Renzi ha il merito di aver strappato ad un parlamento assurdamente frammentato e condizionato da forze politiche irresponsabili e immature una riforma fatta di semplici ed efficaci interventi. Date le condizioni oggettive in cui il dibattito parlamentare si è svolto, trovo che l’operazione abbia quasi del miracoloso. Si dovrebbe fare dell’altro? Certamente. Sarà necessario correggere alcuni dettagli per rendere la riforma più funzionale? Molto probabilmente sì. Ma il punto è proprio questo:  se al referendum vinceranno i SI’, il segnale politico di sostegno alle riforme consentirà di sedersi di nuovo al tavolo delle trattative, riprendere la discussione e introdurre tutti gli eventuali correttivi che si saranno resi necessari; se vinceranno i NO, tutto il processo si bloccherà, nessuna forza politica oserà riprendere ancora io tema delle riforme costituzionali per un bel pezzo e tutti i problemi di inefficienza che la nostra costituzione genera e che lo stesso Pasquino e altri intellettuali contrari a Renzi riconoscono resteranno irrisolti per chissà ancora quanto tempo.

Il benaltrismo è un atteggiamento culturale molto italiano, ma quanto dovrà passare ancora perché si comprenda – specialmente a sinistra- che il meglio è sempre nemico del bene e che rifiutare i cambiamenti in nome di altri e migliori cambiamenti è il modo perfetto per lasciare sempre le cose come stanno?

***

  1. No, non è vero che la riforma del Senato nasce dalla necessità di velocizzare il procedimento di approvazione delle leggi. La riforma del Senato nasce con una motivazione che accarezza l’antipolitica “risparmiare soldi” (ma non sarà così che in minima parte) e perché la legge elettorale Porcellum ha prodotto due volte un Senato ingovernabile. […] Il bicameralismo italiano ha sempre prodotto molte leggi, più dei bicameralismi differenziati di Germania e Gran Bretagna, più della Francia semipresidenziale e della Svezia 

Discutere in questi termini da quali necessità nasca l’abolizione del senato è voler fare un processo alle intenzioni. Hanno prevalso considerazioni legate alla velocizzazione del procedimento legislativo o considerazioni legate al risparmio sulla spesa pubblica? Non lo so ma personalmente ne condivido entrambi i tipi. Sono contento che grazie a questa riforma lo stato taglierà una parte della sua spesa corrente (piccola o grande non saprei dire e non mi interessa) e sono contento che grazie a questa riforma almeno l’80% delle proposte di legge non dovrà attendere due, tre, quattro, cinque, dieci… passaggi parlamentari per essere approvato definitivamente. L’abuso della decretazione d’urgenza e dei voti di fiducia nasce dal bicameralismo perfetto e da nient’altro: per portare una legge in porto, la maggioranza e il governo sono spesso costretti a ricorrere a questi strumenti per evitare che la virgola di un comma modificata all’ultimo momento in una votazione notturna in commissione costringa a rinviare il testo all’altra camera per ricominciare da capo l’iter di discussione e approvazione. Lo sanno tutti che è così. E se al referendum vinceranno i SI’ non sarà più così. A me tanto basta.

Il paragone col numero di leggi approvate da altri sistemi non bicamerali è assolutamente bislacco e fuorviante. Altri paesi non approvano lo stesso spaventoso numero di leggi che ogni anno approva l’Italia semplicemente perché la loro vita pubblica non vive di interventi normativi continui, congegnati solo per giustificare la convocazione permanente del parlamento e il relativo costo (indennità, gettoni di presenza, rimborsi spese…). In molti paesi più evoluti del nostro, i parlamenti lavorano per sessioni temporali concentrate, sulla base di un’agenda predisposta dai governi, producendo pochi e qualificati atti legislativi che esprimono la volontà dei rappresentanti del popolo su alcuni grandi temi. L’Italia invece è prigioniera di una pletora di norme, che si sovrappongono in modo spesso confuso e contraddittorio e ne paralizzano il dinamismo. Nessuno sa con precisione quante siano le leggi e gli atti aventi forza di legge in vigore nel nostro paese (fino a qualche anno fa si ipotizzava un numero superiore a 100.000!). Ma non capisco come un simile dato possa essere considerato come una prova dell’efficacia del bicameralismo perfetto.

Il vero problema politico del bicameralismo perfetto è che esso è stato storicamente lo strumento con cui da un lato si è prodotta la montagna di atti normativi confusi, sovrapposti e contraddittori che paralizza il nostro paese e dall’altro si è impedito di approvare nel termine utile delle singole legislature le vere riforme di cui il sistema avrebbe avuto bisogno (riforme dei meccanismi della spesa pubblica, dello stato sociale, dei diritti civili, della macchina giudiziaria, ecc…). Non capire o negare questo dato di fatto sulla strutturale inefficienza del nostro potere legislativo è molto grave.

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  1. No, non è vero che gli esponenti del NO sono favorevoli al mantenimento del bicameralismo. Anzi, alcuni vorrebbero l’abolizione del Senato; altri ne vorrebbero una trasformazione profonda.

Benissimo. Ma se sono favorevoli al superamento del bicameralismo perfetto perché osteggiano la riforma? Tutti coloro che ragionano su queste materie ritengono di avere una soluzione perfetta alle diverse questioni. Ma rifiutare una riforma in nome di una riforma migliore – l’ho già scritto – è indice di immaturità politica. Le sole riforme possibili sono quelle che riescono a mettere d’accordo un consenso maggioritario in parlamento. La riforma del bicameralismo che si propone è quella che, all’esito di un lunghissimo e tortuoso percorso politico, è riuscita ad ottenere i quattro voti previsti dalla costituzione. Vogliamo respingerla perché non è perfetta, perché non coincide con le nostre elaborazioni intellettuali in materia? Il solo risultato, in questo caso, non sarebbe quello di ottenere una riforma migliore, sarebbe quello di tenersi per almeno un altro paio di legislature il sistema bicamerale perfetto che oggi ci condiziona.

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  1. No, non è vero che è tutto da buttare. Alcuni di noi hanno proposto da tempo l’abolizione del CNEL. Questa abolizione dovrebbe essere spacchettata per consentire agli italiani di non fare, né a favore del “si’” ne’ a favore del “no”, di tutta l’erba un fascio. 

Il tema dello spacchettamento delle riforme è un tema serio. Sarebbe più giusto consentire agli elettori di esprimersi sulle singole modifiche piuttosto che sul loro insieme? Non lo so, la questione non mi sembra facile né dal punto di vista teorico né dal punto di vista tecnico-operativo. Probabilmente esiste nel paese un consenso diverso alle diverse parti della riforma e sarebbe giusto che potesse esprimersi per quello che è. Ma, dall’altro lato, spezzettare troppo la riforma potrebbe significare compromettere la coerenza del risultato finale con gravi problemi di inefficienza.

Il punto politico però è sempre lo stesso: data la circostanza che saremo chiamati ad esprimerci sulla riforma nella sua interezza, vogliamo rigettarla perché non ne condividiamo alcuni aspetti o vogliamo sostenerne lo sforzo complessivo di intervento in direzione di un efficientamento del sistema?

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  1. No, la riforma non è affatto interessata a predisporre canali e meccanismi per una più ampia e intensa partecipazione degli italiani tutti (anzi, abbiamo dovuto registrare con sconforto l’appello di Renzi all’astensione nel referendum sulle trivellazioni), ma in particolare di quelli più interessati alla politica.

Si tratta di una considerazione del tutto fuori luogo, puramente retorica, che nulla aggiunge al merito della discussione. Che cosa c’entra il referendum sulle trivelle e il legittimo appello all’astensione che hanno fatto Renzi e gli altri contrari? Niente. Ma tutto fa brodo nell’appello confuso all’unità di tutti gli oppositori a Renzi.

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  1. No, non è credibile che con la cattiva trasformazione del Senato, il governo sarà più forte e funzionerà meglio non dovendo ricevere la fiducia dei Senatori e confrontarsi con loro. Il governo continuerà le sue propensioni alla decretazione per procurata urgenza. Impedirà con ripetute richieste di voti di fiducia persino ai suoi parlamentari di dissentire. Limitazioni dei decreti e delle richieste di fiducia dovevano, debbono costituire l’oggetto di riforme per un buongoverno. L’Italicum non selezionerà una classe politica migliore, ma consentirà ai capi dei partiti di premiare la fedeltà, che non fa quasi mai rima con capacità, e di punire i disobbedienti.

Mi dispiace ma anche qui la qualità logica del discorso è assai scadente. “Il governo sarà… farà… dirà…” Ma come si fa ad argomentare pro o contro una riforma sulla base di ragionamenti puramente ipotetici e di profezie prive di riscontri empirici? E poi che c’entra l’Italicum? La questione meriterebbe una trattazione a parte ma in generale nessuna legge elettorale di per sé ha la capacità né di alterare la forma di governo dello stato né di determinare i suoi meccanismi istituzionali di fondo. Ricordiamoci che negli anni di Berlusconi e dell’Ulivo non sono bastati la legge uninominale né l’estrema personalizzazione del confronto politico né i nomi dei leader sulle schede elettorali ad impedire che governi eletti con una forte investitura popolare cadessero e fossero sostituiti nel pieno rispetto di tutte le procedure del parlamentarismo costituzionale. E ricordiamoci che neppure il Porcellum (la legge che ha consentito ai leader di partito di nominarsi di fatto i gruppi parlamentari) ha impedito che il governo Berlusconi fosse sostituito dal governo tecnico di Monti né che le ultime due legislature si caratterizzassero per un enorme numero di passaggi di parlamentari da uno schieramento all’altro.

Sforzarsi di valutare la riforma in combinato disposto con la nuova legge elettorale vuol dire condurre un’analisi politica che tiene scarsamente conto dei dati di fatto.

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  1. No, la riforma non interviene affatto sul governo e e sulle cause della sua presunta debolezza. Non tenta neppure minimamente di affrontare il problema di un eventuale cambiamento della forma di governo.

Giusto. La riforma è assai limitata e non tocca punti fondamentali della carta che andrebbero invece fortemente rivisti. È un risultato politico modesto che dovrà servire innanzitutto a rilanciare il dibattito sulla necessità di revisioni più profonde e complessive. Ma non è questo proprio un motivo per sostenerla piuttosto che per respingerla?

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  1. I sostenitori del NO vogliono sottolineare che la riforma costituzionale va letta, analizzata e bocciata insieme alla riforma del sistema elettorale. Infatti, l’Italicum squilibra tutto il sistema politico a favore del capo del governo. Toglie al Presidente della Repubblica il potere reale (non quello formale) di nominare il Presidente del Consiglio. Gli toglie anche, con buona pace di Scalfaro e di Napolitano che ne fecero uso efficace, il potere di non sciogliere il Parlamento, ovvero la Camera dei deputati, nella quale sarà la maggioranza di governo, ovvero il suo capo, a stabilire se, quando e come sciogliersi e comunicarlo al Presidente della Repubblica.

Valgono le considerazioni già svolte circa l’opportunità di valutare la riforma congiuntamente alla legge elettorale. Aggiungo solo che questa distinzione tra un potere “formale” e uno “reale” del Capo dello Stato di nominare il Presidente del Consiglio e di sciogliere le camere è puro delirio. Non so davvero come possa esprimersi così un costituzionalista o uno scienziato della politica.

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  1. No, quello che è stato malamente chiesto non è un referendum confermativo (aggettivo che non esiste da nessuna parte nella Costituzione italiana), ma un plebiscito sulla persona del capo del governo.

Anche in questo caso anziché elaborare argomenti razionali per un’analisi di merito si preferisce ricorrere ad argomenti puramente retorici tipici della diatriba politica.

Questo è il quesito del referendum di ottobre:

“Approvate il testo della legge costituzionale concernente ‘disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?”

Che cosa vuol dire che nella costituzione l’aggettivo “confermativo” non c’è? È un referendum confermativo, non abrogativo né propositivo, con buona pace di Pasquino. E non è un plebiscito su Renzi né un sondaggio sul gradimento del governo né l’elezione di un nuovo parlamento. Con buona pace di tutti coloro che vorrebbero invece dargli questo significato.

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  1. Riforme costituzionali confuse e squilibratrici sono sempre l’anticamera di possibili distorsioni e stravolgimenti istituzionali.

Non ho nessun commento da fare. Non so semplicemente cosa significhi questa frase. Viviamo in un paese la cui intera storia repubblicana è stata caratterizzata da continue distorsioni dei principi democratici e da gravi stravolgimenti del dettato costituzionale. Il tutto a costituzione perfettamente vigente e intonsa.

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Per formazione culturale sono particolarmente sensibile alla qualità logico-formale dei ragionamenti, ancor più che ai loro contenuti. E mi sento di dire in tutta franchezza che la qualità del discorso di Pasquino è in questo caso assolutamente scadente.

Il punto, per me, resta ancora lo stesso: è più probabile che sia la vittoria dei SI’ o la vittoria dei NO a determinare le condizioni politiche più opportune per implementare, migliorare e portare a compimento il percorso di riforme istituzionali di cui questo paese ha bisogno?

Tu cosa ne pensi?

 

La riforma e il referendum: un pò di notizie, alcune considerazioni politiche e qualche piccola provocazione.

La costituzione non si tocca!

Ho sempre considerato questo slogan una delle affermazioni più buffe e sciocche tra quelle – pur non molto brillanti – di cui vive e si alimenta il dibattito politico italiano. Non solo per la velleitarietà e inconsistenza logica della sua pretesa (perché mai non si dovrebbe toccare? Che cosa garantirebbe la sua eterna infallibile perfezione? Non è forse la costituzione nata da un accordo politico tra partiti politici? Non è stata frutto di un momento storico e di una particolare situazione della società italiana, di cui riflette le specifiche condizioni? E se la storia e i problemi  della società italiana evolvono col tempo, così come ogni altro dato umano, non dovrebbe la costituzione adeguarsi a tali cambiamenti?) ma anche per la sua totale infondatezza storica.

Nonostante la costituzione italiana rientri tra quelle costituzioni cosiddette “rigide”, che cioè prevedono meccanismi particolarmente elaborati e un consenso particolarmente ampio per essere modificata, dal 1948 ad oggi (nell’arco cioè di soli 68 anni) essa è stata già modificata 17 volte con altrettante leggi di revisione costituzione, che hanno riscritto numerosi articoli relativi perlopiù a senato, regioni, presidente della repubblica, corte costituzionale, immunità parlamentare, articolazione e funzioni degli enti locali, disciplina del bilancio pubblico, ed è stata già integrata da 11 leggi costituzionali previste dallo stesso impianto programmatico del testo (concernenti perlopiù gli statuti speciali di alcune regioni) e da altre 9 leggi costituzionali, che hanno introdotto norme in deroga alle previsioni del testo originario (con riferimento al funzionamento della corte costituzionale e delle commissioni per le riforme costituzionali).

Per fare un semplice paragone, basti pensare che la costituzione americana – che invece rientra tra le costituzioni cosiddette “flessibili”, in quanto prevede un meccanismo di revisione e modifica assai semplice e privo di un consenso speciale – nei 229 anni da che è in vigore è stata modificata in tutto da soli 27 emendamenti, di cui i primi dieci rappresentano un’integrazione unitaria che recepì i principi della dichiarazione dei diritti dell’uomo e fu realizzata solo due anni dopo l’entrata in vigore, e gli altri sono sostanzialmente chiarimenti e modifiche ad aspetti di dettaglio.

La costituzione non si tocca! (fondamentale è la perentorietà del punto esclamativo…) non è quindi solo un’affermazione stupida in linea di principio ma anche una pretesa marchianamente in contrasto con le necessità e il dibattito che ha caratterizzato tutta la nostra storia democratica.

La verità pura e semplice è che la costituzione italiana è stata ritoccata molte volte ed è da tempo oggetto di ampi progetti di modificata perché – a dispetto di tutta la retorica che accompagna la discussione su questo tema – essa non è affatto quel capolavoro che si pretende e disegna un’architettura istituzionale che presentò fin da subito gravissime fragilità.

La strutturale debolezza del potere esecutivo rispetto a quello legislativo e un bicameralismo paritario concepito per rendere più “riflessiva” la funzione parlamentare si dimostrarono già dai primi anni della repubblica due scelte errate, causa di grave instabilità dei governi e di abnormi degenerazioni del parlamentarismo.

La disciplina costituzionale dell’ordinamento ha contribuito in maniera decisiva alla strutturale inefficienza del “sistema Italia” e di ciò le forze politiche maggiormente responsabili e coinvolte nella guida della nazione hanno sempre avuto chiara consapevolezza. Nel corso degli ultimi quarant’anni i tentativi di una riforma profonda e complessiva sono stati molti ma tutti sono naufragati per l’incapacità dei partiti di giungere a una sintesi che guardasse oltre le necessità dell’ordinaria dialettica politica (chi non ricorda gli esiti disastrosi delle commissioni bicamerali Bozzi, De Mita-Iotti e D’Alema e la stroncatura referendaria della legge di modifica approvata nel 2005 dalla maggioranza di centrodestra?). Ma, al di là delle diverse soluzioni elaborate, tutti i tentativi di riforma sono stati accomunati dalla chiara e diffusa consapevolezza della necessità di correggere diversi aspetti della seconda parte del testo costituzionale allo scopo, in particolare, di superare il bicameralismo perfetto del nostro sistema parlamentare, di riequilibrare il rapporto tra i poteri dello stato e di rendere più funzionale ed efficiente la distribuzione delle competenze tra autorità centrale ed autonomie locali.

Sarebbe una buona idea approcciare la discussione sul referendum di ottobre informandosi innanzitutto sulle elaborazioni alla base dei precedenti tentativi di riforma. Se un arco amplissimo di forze politiche assai diverse tra loro per cultura e storia ha ritenuto, infatti, per decenni di convergere sull’idea che la nostra costituzione in qualche modo necessiti di una profonda revisione, questo fatto non può essere ignorato e/o interpretato con le sole categorie dell’antipolitica più ottusa o del complottismo demenziale.

Problemi nel funzionamento del nostro sistema istituzionale ce ne sono e sono decisamente seri. Volerli negare in nome di un purismo costituzionale radicalmente conservatore è un atto soltanto irrazionale.

Chi si oppone alle riforme costituzionale spesso utilizza argomenti propagandistici basati sull’equivalenza tra costituzione e democrazia: si lascia intendere che, poiché “la costituzione è la democrazia”, ogni riforma della costituzione realizza in quanto tale un “attacco alla democrazia”. Questo è un paralogismo che rivela o grande ignoranza o grande disonestà intellettuale (spesso entrambe le cose). La costituzione non è la democrazia; la costituzione è uno strumento (neppure l’unico) per realizzare la democrazia. Se lo strumento è inadeguato, è disfunzionante, è logoro, è superato, ostinarsi a conservarlo così com’è significa osteggiare la democrazia, non difenderla. Né più né meno.

Personalmente mi annovero tra coloro (sparuta minoranza) che ritengono che anche la prima parte della costituzione -quella relativa ai principi fondamentali – dovrebbe essere radicalmente riscritta. Sono convinto che anche in quegli articoli il testo della nostra costituzioni si mostri datato, figlio di un contesto politico internazionale troppo diverso da quello attuale e di una elaborazione troppo influenzata da culture politiche – come quella cattolica e quella marxista – essenzialmente lontane da una visione liberale e moderna  della democrazia.

Il risultato dell’accordo politico tra cattolici e marxisti fu un testo velleitario nella sua programmaticità, preoccupato di definire obiettivi di tipo socialista per l’azione dei governi che sarebbero venuti più che di delineare un chiaro, ordinato ed equilibrato quadro di poteri e funzioni. Non voglio elaborare più in dettaglio queste considerazioni, perché non hanno nulla a che fare con il merito della riforma Boschi-Renzi su cui dovremo esprimerci, ma credo che si potrebbe argomentare robustamente in favore della tesi che la definizione dei principi fondamentali rifletta una concezione dello stato e del rapporto tra stato e individuo arretrata rispetto alle elaborazioni del costituzionalismo moderno. I diritti e le libertà fondamentali dell’individuo specificati nella costituzione risultano essenzialmente subordinati alle istanze della socializzazione (vera linea di definizione centrali di tutte le culture politiche del novecento), la laicità dello stato appare fortemente azzoppata dall’accettazione supina del dato di fatto dei rapporti illiberali tra stato e chiesa disegnati dai patti lateranensi, i rapporti sociali e le libertà economiche sono concepiti nel quadro di quella visione corporativa e ostile ai valori evolutivi del mercato e della concorrenza che era stata propria del regime fascista e che apparteneva anche alle culture politiche della Democrazia Cristiana e della sinistra di ispirazione marxista. L’ideologica programmaticità del testo inoltre ne indebolì anche l’applicazione: molte previsioni anche di tipo istituzionale furono realizzate solo dopo moltissimi anni dall’entrata in vigore (emblematico il caso delle regioni, previste dal testo del 1948 ma rese operative solo nel 1970!) e diede ampio margine alla subordinazione di fatto della cogenza delle norme alla prassi politica (la cosiddetta “costituzione materiale”). Il risultato complessivo fu quella di dare a una democrazia già bloccata dalla sostanziale impossibilità di un’alternanza tra forze politiche al governo del paese (nel contesto del mondo di Yalta), uno stato di diritto strutturalmente debole e inefficace.

Ma, ripeto, la discussione su questa materia non è all’ordine del giorno. All’ordine del giorno c’è invece una proposta di riforma che prevede solo alcuni limitati ma significativi cambiamenti:

  1. il superamento del bicameralismo perfetto;
  2. una diversa precisazione e distribuzione delle competenze tra stato centrale e autorità locali;
  3. l’abolizione del CNEL;
  4. l’abolizione delle province.

Questi e non altri sono i contenuti della riforma su cui dovremo votare (e a cui vorrei dedicare i prossimi post di questo blog, per illustrarne e discuterne in dettaglio aspetti positivi e limiti).

Trattandosi di interventi ampiamente condivisi nel loro intento (al di là di ciò che la propaganda dei partiti antigovernativi vorrebbe far credere) e da lunghissimo tempo al centro del dibattito e dell’elaborazione in materia di riforme costituzionali, non è tanto il loro contenuto a discriminare tra le posizioni quanto piuttosto il significato politico complessivo della riforma e le sue implicazioni. E’ inevitabile che sia così: la strumentalità delle posizioni politiche è connaturata alla democrazia in quanto tale.

Se da un lato, tuttavia, un’eccessiva enfasi sul contesto politico entro cui cade la riforma rischia di mettere troppo in ombra il valore e la necessità dei cambiamenti proposti e di ostacolare quindi una razionale discussione di merito, dall’altro lato è indubbio che il risultato principale che la riforma – se confermata – porterà a casa sta proprio nelle sue ricadute politiche generali e di sistema.

 

Un referendum sulla costituzione o su Renzi?

L’intenzione di trasformare il referendum confermativo sulla riforma costituzionale in un sondaggio sul governo Renzi è esplicita in entrambi gli schieramenti. Renzi ha più volte affermato che l’esito del referendum avrà conseguenze drastiche – sia in positivo sia in negativo – sul governo e sulla sua stessa carriera politica. I sostenitori del no, dal loro canto, accanto alle frottole sugli “attacchi alla democrazia” e il blabla del conservatorismo costituzionale propagandano con gli mezzo l’associazione tra riforma e governo, allo scopo di portare alla loro causa ogni forma di opposizione a Renzi e al PD. Il risultato è che il fronte del no si contraddistingue per una straordinaria eterogeneità politica, mettendo insieme di fatto ogni portatore di interesse contrario al governo: dai docenti di diritto costituzionale psicologicamente ostili ad ogni ritocco del sacro testo ai leghisti che fino all’altroieri la costituzione volevano mandarla al macero insieme all’unità nazionale; dalla sinistra della retorica sulla “costituzione più bella del mondo”, tutta ANPI e 25 aprile, ai neofascisti di casapound; dai grillini indottrinati all’antipolitica da anni di informazione questurina all’intramontabile re dell’opportunismo amorale Silvio Berlusconi.

Ma questa non è una novità. Questo stesso grado di eterogeneità ha contraddistinto e contraddistingue in generale l’opposizione a qualsiasi grande riforma in qualsiasi materia. D’altronde è caratteristico di questa fase delle moderne democrazie di massa il fatto che la linea di differenziazione tra gli schieramenti politici non passi più attraverso significative divergenze nell’interpretazione delle libertà economiche, dei rapporti tra stato e mercato o tra stato e individuo, ma passi invece per l’atteggiamento complessivo e prepolitico nei confronti del “sistema” in quanto tale. La contrapposizione è sempre più quella tra le forze interessate alla protezione, al rafforzamento e all’evoluzione del sistema e dei suoi fondamentali risultati di benessere libertà e inclusione sociale da un lato e le forze centrifughe che premono per scuotere il sistema con irruenza proprio nelle sue strutture fondamentali, in nome del malcontento e del senso di sgomento che crescenti masse di declassati e disadattati provano di fronte ai grandi cambiamenti del nostro tempo.

Che il referendum abbia dunque un significato che ben travalica il suo contenuto è nelle cose.

Va detto però che le ragioni dell’attribuzione di questo significato politico non sono equamente distribuite tra i due lati. Infatti, quando i sostenitori del no associano il rifiuto delle riforme alla più generale opposizione al governo Renzi, compiono un’operazione comprensibile ma cionondimeno intellettualmente disonesta, che eclissando del tutto ogni argomento sul merito delle innovazioni realizzate, danneggia oggettivamente l’interesse collettivo ad un dibattito pubblico sereno e razionale. D’altro canto, quando afferma che ci sarà un effetto diretto del referendum sul suo governo Renzi svolge un ragionamento istituzionalmente assai corretto.

Ricordiamoci che, dopo le elezioni del 2013, un parlamento frammentato in tre schieramenti reciprocamente incompatibili, incapace di esprimere un governo politicamente omogeneo e perfino di individuare un successore alla presidenza della repubblica, fu costretto a dare la fiducia a due governi caratterizzati da grande disomogeneità politica (quello di Letta prima e di Renzi poi) e a chiedere al Presidente Napolitano di restare in carica per un secondo mandato con il solo ed unico scopo di portare a conclusione il lunghissimo e improduttivo iter delle riforme istituzionali che la grave crisi del 2011 aveva dimostrato essere non più rinviabili.

Ricordiamoci cioè che se da tre anni l’Italia è governata da maggioranze parlamentari ibride ed incoerenti – con tutti i limiti di efficacia dell’azione di governo che ciò implica – lo dobbiamo al risultato inconcludente delle elezioni del 2013 (favorito da una legge elettorale pessima e infine cassata in molti dei suoi aspetti principali dalla Corte Costituzionale) ma anche all’impegno che tutte le principali forze politiche assunsero col Presidente Napolitano di portare all’approvazione finale un pacchetto di riforme costituzionali che risolvesse almeno alcuni dei problemi ordinamentali del nostro sistema.

Poiché il referendum di ottobre è l’atto conclusivo di questo processo, da un punto di vista strettamente istituzionale Renzi ha perfettamente ragione quando dichiara che l’unico motivo che giustifica il proseguimento della formula parlamentare grazie a cui governa è il completamento della missione ricevuta dal Presidente della Repubblica ed in virtù della quale le camere non furono sciolte all’indomani della constatazione della potenziale paralisi politica. Dunque, per quanto rischi di alimentare una interpretazione scorretta e infruttuosa del referendum, la sua posizione è corretta.

Dal punto di vista politico il significato del referendum sta tutto nella scelta tra portare a termine un lunghissimo complicatissimo faticosissimo quanto necessario percorso di riforme o  far naufragare per l’ennesima volta questo percorso in un nulla di fatto che mantenga in vita per un tempo indefinito le inefficienze strutturali del sistema e scoraggi le forze politiche dal prendere ulteriori iniziative in direzione delle riforme.

La riforma approvata sotto l’impulso del governo Renzi non è affatto una rivoluzione né – va detto – non affronta i nodi problematici più complessi (forma di governo, equilibrio tra i poteri). Tuttavia essa è una riforma coerente che si propone di rimuovere alcune delle più macroscopiche inefficienze del sistema: quelle derivanti da un bicameralismo perfetto che non ha ragioni né logiche né storiche per essere difeso così come è attualmente; quelle derivanti da una distribuzione della potestà normativa tra stato e regioni che ha avuto come unico effetto la moltiplicazione del contenzioso costituzionale tra organi dello stato e la paralisi di ogni grande intervento in materia di infrastrutture; quelle derivanti da un’applicazione totalmente fraintesa e immatura dell’idea di autonomia nelle amministrazioni locali che ha condotto all’esplosione del debito pubblico e al saccheggio fuori controllo delle risorse pubbliche a livello locale. Lungo queste direttrici la riforma sviluppa una serie di modifiche che se correttamente implementate dalle norme conseguenti e dalla prassi (così come d’altronde si richiede per qualsiasi riforma) possono effettivamente aggiungere modernità ed efficienza al sistema istituzionale.

Ma ogni riforma in quanto tale porta con sé delle incognite. Funzionerà? Conseguirà effettivamente gli obiettivi che si pone? La scelta sta tutta nella valutazione del trade-off tra le incognite connesse al funzionamento della nuova articolazione istituzionale che si propone ed il costo politico di un’indicazione popolare in direzione della conservazione dello status quo.

Tu cosa ne pensi?