Partecipando a dibattiti sul referendum mi sono reso conto dell’esistenza di alcuni refrain che, oltre a deviare l’attenzione del pubblico dal vero nocciolo della faccenda e viziare così la discussione, la rendono anche particolarmente ripetitiva e noiosa. Ecco allora una rapsodia di appunti per mettere i miei personali puntini sulle i di questi motivetti che mi hanno un po’ stufato.
***
I Padri Costituenti. Ovvero: per farla finita con la storia riscritta a consolazione delle masse.
I costituenti non furono né particolarmente saggi né particolarmente coesi. Basta leggersi i resoconti dei dibattiti dell’Assemblea Costituente e i giudizi che autorevoli membri della stessa diedero sulla Costituzione all’indomani della sua approvazione. Il processo di elaborazione del testo costituzionale rivelò subito gravi carenze di fondazione teorica (la ragione per cui Salvemini definì la Costituzione “un Himalaya di somaraggini”) e fu interamente ispirato dalla necessità di portare a sintesi culture politiche – quella cattolica e quella marxista, in particolare – drammaticamente contrapposte e portatrici di una visione dello stato assai poco consona alle idee di fondo della democrazia liberale classica.
La vera virtù dei Costituenti fu invece il coraggio. Gli autori della Costituzione ebbero il coraggio di assumersi dei rischi, di siglare dei compromessi discutibili, di accettare soluzioni tecniche deboli e problematiche pur di chiudere con il passato monarchico che aveva condotto al fascismo e dare vita a un processo politico di tipo nuovo. Si può ragionevolmente ritenere che nessuno di loro pensasse di aver contribuito ad elaborare un capolavoro e che nessuno di loro fosse del tutto ignaro dei problemi che la Costituzione recava con sé. Ma il loro coraggio fu quello di accettare l’idea che si sarebbe trattato di problemi nuovi, a cui si sarebbero date nel futuro risposte nuove. Il loro scopo condiviso era avviare un processo democratico, un processo che avrebbe avuto bisogno di un rodaggio e di molti successivi aggiustamenti, ma che avrebbe tratto la forza di autocorreggersi proprio dalla spinta di questo avvio.
E’ esattamente quello che dobbiamo fare anche noi con il referendum del 4 dicembre: avere il coraggio di dare avvio e sostegno a un processo di trasformazione radicale della democrazia italiana e assumerci il rischio di commettere errori, sapendo che affrontare problemi di tipo nuovo potrà essere salvifico per un paese che sta morendo.
***
Gli errori di Renzi. Ovvero: chi tira la carretta in un paese di mosche cocchiere?
Renzi ha probabilmente sbagliato la campagna ma questo non può essere un alibi né per chi non sta muovendo un dito né per chi voterà per conservare lo status quo. Gestire la comunicazione politica nelle moderne società di massa è un’impresa complicatissima ed è fin troppo facile giudicare i limiti di una campagna dopo che se ne sono registrati gli scarsi risultati nei sondaggi. Renzi aveva ottime ragioni per investire la propria immagine nella battaglia per il SI’ e per legare proprio all’esito del referendum le sorti del suo governo e di una legislatura nata e tenuta in vita solo dall’impegno alle riforme.
Questo refrain sulla personalizzazione e gli errori della campagna comunicativa, francamente, mi sembra solo l’ennesimo luogo comune usato in chiave di autoassoluzione da quel popolino pseudointellettuale che non contribuisce mai a nulla, non si spende mai per nulla, ma attende alla finestra di capire di che colore è il carro del vincitore per buttarcisi sopra. Per come la vedo io, a fronte di un PD che – al di là delle sue patetiche divisioni – non ha mosso un solo dito per sostenere questo referendum; a fronte di comitati per il SI’ esistenti solo sulla carta e spesso neppure su quella; a fronte di parlamentari nazionali, parlamentari europei, consiglieri regionali, sindaci, consiglieri comunali, che sono capaci di fare il diavolo a quattro quando si tratta di mettere insieme le preferenze che servono a garantirsi lo stipendio ma non si sono neanche alzati dalla sedia per sostenere una battaglia politica di cambiamento; a fronte di tutto ciò, Renzi, che ha scommesso la sua faccia e il suo futuro politico su queste riforme, potendosene invece benissimo stare al calduccio di Palazzo Chigi a far finta di fare le cose, come hanno fatto per trent’anni i suoi predecessori, per me si è dimostrato un fuoriclasse, un autentico alieno apparso nel sistema, e si è guadagnato tutto il mio rispetto, errori o non errori.
***
La legge elettorale. Ovvero: se proprio volete parlare di qualcosa che non c’entra niente almeno fatelo con cognizione di causa.
Nel valutare le leggi elettorali non bisogna tenere conto solo del trade-off tra rappresentatività e governabilità. Anzi, dal mio punto di vista, la significatività di questo trade-off è assai sopravvalutata, ma non è questa la sede per entrare in una simile discussione. Nel valutare le leggi elettorali bisogna innanzitutto comprendere quale logica della rappresentanza esse traducono. Leggi proporzionali, maggioritarie o con premi di maggioranza sono tutte potenzialmente ugualmente “rappresentative”, ma sulla base di logiche della rappresentanza diverse. Una discussione più utile è allora quella che punta ad esplicitare tale logica e a valutare con quanta efficienza la legge la realizza.
Un miglior modo di valutare le leggi elettorali dal punto di vista della loro “democraticità” (parola tra le più vuote e fraintese della storia…) è fare le seguenti due cose:
- misurare che percentuale dei seggi da assegnare risulta soggetta a una reale contesa politica e che percentuale è invece sottratta alla vera contendibilità da meccanismi di autoprotezione delle leadership: questo consente di farsi un’idea di quanto il sistema sia effetttivamente accessibile agli outsider, aperto al ricambio e perciò democraticamente inclusivo;
- misurare lo scarto che sussiste tra l’output del processo decisionale realizzato sulla base della legge elettorale e le preferenze dell’elettore mediano: questo consente di farsi un’idea di quanto efficientemente il sistema riesca a tradurre in decisioni la “volontà del popolo”.
Il resto sono solo discussioni incompetenti.
Dal punto di vista della prima misura, sia il maggioritario in vigore fino al 2006 sia il famigerato Porcellum si sono caratterizzati per una percentuale piuttosto bassa di seggi effettivamente contendibili (si stima inferiore al 50%). L’Italicum, in ragione dei collegi piccoli, delle preferenze e di un premio di maggioranza piuttosto ridotto, potrebbe portare questa percentuale intorno al 70-75% (il che è, tra l’altro, la vera e unica ragione per la quale la cosiddetta minoranza del PD lo osteggia così violentemente…). Si tratta di un miglioramento considerevole dal punto di vista della inclusività.
Per quanto riguarda la seconda misura, il livello di insoddisfazione generale e di disaffezionamento dalla partecipazione politica che si registra in Italia, oltre ai continui cambi di fronte che si verificano dopo ogni elezione, depone chiaramente a favore dell’idea che il processo decisionale sperimentato negli ultimi trent’anni abbia fallito nel determinare politiche apprezzate dall’elettore mediano e, rispetto a questo fallimento, tutte le leggi elettorali adottate finora (proporzionale, maggioritario, proporzionale con premio di maggioranza) sono state identicamente inefficienti.
L’Italicum non mi piace granché perché credo che la logica della rappresentanza che lo ispira non risolva i veri problemi della nostra democrazia. Cionondimeno lo considero un netto passo avanti rispetto al Porcellum e al proporzionale puro che è venuto fuori dai tagli operati dalla Corte Costituzionale sul Porcellum.
***
La democrazia in pericolo. Ovvero: di pagliuzze e travi.
La democrazia italiana ha in effetti un grande problema, di cui però nessuno sembra accorgersi e che non viene mai tirato in ballo nei dibattiti che nascono a partire dal referendum. Questo problema è la dimensione del tutto fuori controllo che hanno raggiunto i fenomeni di corruzione elettorale. La realtà pura e semplice è che, sia nelle elezioni primarie sia in quelle ufficiali, ad ogni livello del sistema istituzionale, una diffusissima e costante pratica di corruzione elettorale (compravendita di voti individuali e a pacchetti, voto di scambio, clientelismo spinto fino a vere e proprie forme di feudalesimo politico, eccetera) determina l’effettiva costituzione di una parte significativa del ceto politico posto al comando della spesa pubblica. Se la qualità della classe dirigente, del dibattito politico, della gestione della cosa pubblico e perfino della tecnica legislativa è degradata in maniera così rapida ed evidente negli ultimi vent’anni, ciò è dovuto in misura significativa al fatto che l’accesso alle cariche pubbliche (e, a catena, ai ruoli chiave di tutti gli apparati amministrativi) è gravemente viziato da dinamiche totalmente illegali e immorali.
Volete discutere dei pericoli che incombono sulla nostra democrazia? Bene, discutete di questo. Vi preoccupano le “derive” autoritarie e non che potrebbe prendere il sistema? Benissimo, affrontate questa faccenda e lasciate perdere le stupidaggini.
É bene essere consapevoli del fatto che non basterà mai l’intervento repressivo della magistratura a portarci fuori da questo buco nero che sta inghiottendo il sistema. In ogni società l’apparato penale, per definizione, può reprimere solo la devianza marginale. Quando un fenomeno di illegalità diventa epidemico e sistematico non bastano tutte le inchieste di questo mondo a sradicarlo (e la lezione del 1992 e di “manipulite” avrebbe dovuto essere conclusiva a riguardo). Solo un cambio nella cultura sociale e nei rapporti di forza tra gruppi di interesse può invertire la tendenza alla replicazione e all’autotutela della peggiocrazia italiana. Come si faccia a sollecitare e realizzare un tale cambio è, tuttavia, una questione che nessuno scienziato sociale pare sia ancora riuscito a risolvere.
***
Il nuovo senato e la democrazia. Ovvero: ogni scolaretto sa che…
In democrazia non si sceglie mai il meglio ma sempre e solo ciò che è valutato il meno peggio e con un livello di confidenza anche piuttosto basso. Inutile farne un dramma.
La democrazia è disfunzionante non solo in Italia ma in tutto il mondo, non solo oggi ma da sempre.
Ma, soprattutto, l’idea di fondo della democrazia non ha niente a che fare con un’astratta e imprecisabile “volontà del popolo” (che diavolo sarebbe ‘sto “popolo”? che grado di omogeneità ci potrebbe mai essere nella galassia di interessi che si esprimono in una società complessa da giustificare l’idea stessa di una volontà unica, coerente e ben definita?)
L’idea di base della democrazia moderna ha a che fare con la protezione dal potere. La democrazia moderna non è altro che un complesso di meccanismi (di fatto coordinati tra loro in modo inefficiente e problematico) che serve a proteggere l’individuo medio dagli abusi del potere, a limitare l’esercizio del potere da parte di chi è potente e a permettere che la dialettica tra gli interessi non si risolva solo (o perlomeno non solo e non sempre) nell’affermazione del più forte. Tutto qui.
La democrazia moderna è fatta sostanzialmente di tre cose, che storicamente si sono rivelate essere le soluzioni più efficaci al problema della protezione dell’individuo dal potere e dalla violenza: lo stato di diritto, il libero mercato e le istituzioni politiche consensuali. Per valutare la “democraticità” di un moderno sistema democratico bisogna valutare il grado di efficienza e di reciproca coordinazione di questi tre istituti nel sistema.
Personalmente, sono convinto che l’inefficienza delle istituzioni politiche rappresentative sia l’aspetto meno critico della democrazia italiana, la quale ha invece serissimi problemi nell’implementazione di un vero stato di diritto e di una vera economia di mercato. Per questo non mi appassiono molto alle ciance sulle derive autoritarie. Ma, per gli amanti del genere, sappiate che il nuovo senato disegnato dalla riforma non indebolisce affatto la democrazia ma la rafforza.
Il nuovo Senato non sarà composto in una singola campagna elettorale nazionale, sarà invece formato da molteplici elezioni e surroghe di componenti in un processo praticamente ininterrotto. Esso catturerà dunque più della Camera dei Deputati la mutevolezza dell’opinione pubblica e la complessità degli interessi che si esprimono nelle articolazioni territoriali dello stato. Un senato come l’attuale, eletto contestualmente all’altra camera, riflettendo la medesima maggioranza politica potrebbe, in presenza di un sistema elettorale fortemente maggioritario ad esempio, prestarsi ad avallare modifiche costituzionali interpretabili come “derive autoritarie” (visto che piacciono gli spauracchi, usiamoli pure). Il nuovo senato no. Il nuovo senato non rispecchierà la maggioranza politica della Camera e, per definizione, quando interverrà nel processo legislativo – come nel caso di riforme costituzionale – esprimerà il punto di vista di interessi altri e potenzialmente contrapposti rispetto a quelli rappresentati nella camera, offrendo dunque maggiori garanzie di dialettica e controllo sulle iniziative della maggioranza di governo.
***
La discussione nel merito. Ovvero: è sempre con le belle parole che si va in culo alle masse.
Questa storia di mettere la gente comune a discutere di commi e codicilli e a discettare di complesse questioni di ingegneria istituzionale con la pretesa di “entrare nel merito” della riforma mi sembra francamente una presa per i fondelli. Fare previsioni sulle implicazioni di riforme dei meccanismi istituzionali è sempre complicatissimo e raramente utile. I cambiamenti per definizione portano problemi, ma si tratta di problemi di tipo nuovo. Valutare preventivamente i pro e i contro rispetto al funzionamento del sistema di problemi di tipo nuovo mi sembra un esercizio puramente speculativo. Per questo resto convinto che il merito del referendum, il suo autentico merito, non riguardi affatto i dettagli delle norme che vengono proposte ma riguardi piuttosto una decisione prettamente politica sull’alternativa tra mantenere lo status quo (con tutte le relative probabili involuzioni) o avviare e sostenere un processo di sommovimento radicale del sistema nel suo complesso, che il governo Renzi ha coraggiosamente posto al centro dell’agenda. E sono altresì convinto che per farsi un’opinione razionale su questo merito sia necessario valutare attentamente quali saranno gli effetti delle due possibili alternative. Come reagiranno i nostri creditori internazionali, i potenziali investitori, i paesi dell’area euro che si sentono molto condizionati dal pericolo di una nostra crisi finanziaria? Quali saranno gli effetti sulla nostra credibilità e su tutto ciò che da essa deriva? Mi pare piuttosto chiaro dalle autorevoli dichiarazioni di leader internazionali che si sono accumulate in questi giorni che il mondo guarda con attenzione e una certa apprensione alla scelta che gli italiani faranno il 4 dicembre. A nessuno frega niente, ragionevolmente, delle competenze del nuovo senato, del CNEL, della potestà legislativa delle regioni o della lunghezza dell’art.70. Ma a tutti interessa capire se e come gli italiani intendono reagire al proprio declino, con quanta serietà stanno affrontando il tema della riforma del sistema, quanta consapevolezza hanno della gravità della loro crisi economica e sociale e quanta coesione nazionale sapranno esprimere di fronte alla necessità di prendere di prendere decisioni importanti assumendosene i relativi rischi. Queste sono le cose che saranno valutate nel mondo la sera dello scrutinio. E queste sono le cose che dovremmo valutare noi quando avremo in mano la matita per segnare la croce sulla scheda.
Tu cosa ne pensi?